Esiste un linguaggio nascosto sotto al linguaggio stesso?

Il videogioco Dark Souls sul piano artistico e narrativo e il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein su quello filosofico e logico ci mostrano come ciò che possiamo dire non esaurisca la totalità della comunicazione.
In Dark Souls chi cerca trova
“Nell’era degli antichi il mondo era amorfo e avvolto dalla nebbia. Un regno di rupi grigie, alberi giganti e draghi eterni. Poi venne il fuoco…e con il fuoco venne la diversità. Caldo e freddo, vita e morte e infine…luce e tenebra. Poi, dall’oscurità giunsero loro, e trovarono le Anime dei Lord tra le fiamme. Nito, il primo dei morti, la Strega di Izalith e le sue Figlie del Caos, Gwyn, il Lord del Sole, e i suoi fedeli cavalieri, e il nano furtivo, spesso dimenticato. Con la forza dei Lord, essi sfidarono i draghi. I potenti dardi di Gwyn perforarono le loro scaglie di pietra. Le streghe invocarono immense tempeste di fuoco. Nito scatenò un miasma di morte e malattia. Seath il Senzascaglie tradì i propri simili e i draghi si estinsero: così ebbe inizio l’età del Fuoco. Ma presto le fiamme svaniranno, e resterà soltanto l’Oscurità. Perfino ora, restano soltanto le braci e l’uomo non vede la luce, ma solo notti eterne e tra i viventi si distinguono i portatori del maledetto Segno Oscuro. Si, invero il Segno Oscuro marchia i non morti e in questa terra i non morti vengono radunati e condotti a nord, dove sono rinchiusi in attesa della fine del mondo. Questo è il tuo destino…”
Con queste parole veniamo gettati nell’ormai celeberrimo videogioco Dark Souls. Un’introduzione questa in realtà molto povera e sbrigativa in confronto alla ricchezza del mondo che ci apprestiamo ad esplorare: in ogni insidia e angolo delle vaste terre di Lordran si nasconde infatti una storia millenaria dall’intenso fascino, che abbraccia le origini e la fine dell’umanità e di tutti gli esseri. Eppure queste poche ed enigmatiche parole saranno le uniche che ci verranno fornite, le uniche a cui poter fare sicuro affidamento, in quanto durante il corso della nostra avventura non sentiremo più la sicura e confortevole voce di un narratore e noteremo anzi la totale assenza di una esplicita forma di narrazione alla quale i videogiochi ci hanno convenzionalmente abituati. Come se non bastasse, anche il nostro personaggio, che mai proferirà parola, è anonimo, un’anonimità vuota, che non cela nulla di misterioso, tanto che sembra avere una propria storia. Ma non solo: se da un lato il gioco non fornisce una mappa per orientarsi, non assegna esplicitamente una missione, non offre istruzioni sull’uso degli oggetti o consigli, dall’altro esso ci spalanca da subito tutte le possibilità di azione, tutti i percorsi percorribili, senza passare per tappe obbligatorie e livelli di difficoltà proporzionati al nostro livello, in un free roaming che disorienta il giocatore. Insomma, la sensazione che si ha dopo aver inserito il disco è che non ci siano precise azioni da svolgere e che in realtà non ci sia nessuna storia. Eppure, chi avrà la pazienza per superare questo iniziale spaesamento scoprirà al contrario che le cose da fare sono molte e che ogni demone, ogni mercante, ogni fabbro e ogni cavaliere porta con sé un’intrigata vicenda.
Perché allora questo disagio? Cosa è che impedisce alla trama di emergere in tutto il suo fascino? In realtà tali difficoltà sono dovute al particolare stile narrativo proposto dal videogioco: la storia infatti coincide con lore, ovvero con gli antefatti che hanno portato all’attuale composizione del mondo di gioco, una lore che tuttavia non viene raccontata, ma “semplicemente” mostrata. Ciò significa che quanto possiamo scoprire, anziché esserci esplicitamente detto con qualche escamotage narrativo, è deducibile direttamente dal mondo di gioco: le descrizioni degli oggetti forniscono indizi sui loro possessori o sulle vicende in cui sono stati coinvolti, le parole e le azioni dei personaggi non sono mai casuali e risultano sempre giustificabili, gettando una luce sul loro background. Questo paradigma funziona anche per il gameplay: non troveremo istruzioni per l’uso delle armi o segnali per capire dove dirigersi, ma le descrizioni, i dialoghi, il livello dei nemici e i paesaggi stessi nascondono sempre utili tracce percorribili. E’ in questo senso che il videogioco, pur senza condurre per mano l’avventuriero, mette a disposizione tutto il necessario per orientarsi nella trama e nei livelli, senza tuttavia sostituirsi al giocatore nell’uso di tali strumenti. Così quello che inizialmente era un elemento straniante si rivela essere in realtà il modo migliore per un’esperienza di gioco realistica: come nella vita reale non abbiamo percorsi prestabiliti da seguire e nessuno può fornirci indicazione su cosa sia giusto fare e come farlo, ma il mondo stesso ci mostra le azioni che possiamo compiere e le informazioni che possiamo acquisire, lasciando a noi la scelta di realizzare tali potenzialità, così in Dark Souls vestiamo letteralmente i panni di un uomo qualunque che, senza sapere perché e come, deve districarsi in un mondo a lui ignoto.
In questo senso la quarta parete viene silenziosamente rotta, trascinandoci con forza nelle misteriose terre di Lordran, dove sta a noi, se vogliamo e se abbiamo l’occhio abbastanza attento, scovare le tracce che possano dar risposta i nostri interrogativi e soprattutto interpretare queste ultime, poiché nessuno, al termine del viaggio, ci fornirà una definitiva verità: in Dark Souls, solo chi cerca, trova.

L’inutilità del Tractatus di Wittgenstein
“Invece la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e definitiva. Sono dunque dell’avviso d’aver definitivamente risolto nell’essenziale i problemi. E, se qui non erro, il valore di questo lavoro consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare quanto poco valga l’essere questi problemi risolti.”
Con queste parole Wittgenstein stesso termina la prefazione al proprio Tractatus logico-philosophicus, facendo implicitamente riferimento alla distinzione tra ciò che si mostra nel linguaggio e ciò che si dice col linguaggio. Ripercorrendo la definizione di linguaggio secondo Wittgenstein, cerchiamo dunque di dar ragione della conclusione alla quale arriva.
In buona sostanza, per il filosofo austriaco il linguaggio è un modo di farci immagini dei fatti del mondo: come un modellino ricostruisce l’oggetto o la situazione reale a cui fa riferimento, rispettando una scala di proporzione e una serie di regole attraverso le quali risulti chiaro quale simbolo stia per quale oggetto reale raffigurato, così il linguaggio si comporta allo stesso modo, ma usando parole al posto di modellini e rispettando vere e proprie regole logiche.
Delineando così la teoria della raffigurazione, Wittgenstein, se da un lato ha il merito di fornire una precisa e convincente definizione di cosa sia il linguaggio, dall’altro impone forti limiti a quest’ultimo: mentre infatti le proposizioni che descrivono i possibili fatti del mondo (come “la penna è sul tavolo” o “la macchina sta viaggiando in modo uniformemente accelerato”) sono legittime, tutte le altre non lo sono e dunque non fanno parte del linguaggio. Tra queste ultime si distinguono particolarmente quelle tipiche della filosofia (che esprimono giudizi e non descrivono fatti) e quelle che tentano di dire ciò che il linguaggio già mostra, ovvero quelle che descrivono il funzionamento e le regole del linguaggio stesso. Se le prime dunque hanno la pretesa di parlare ciò di cui il linguaggio non è adatto a parlare, le seconde vorrebbero esplicitare ciò che in realtà è già implicito e che tutti, anche se inconsapevolmente, dobbiamo sapere per comprendere una frase: è in questo senso che Wittgenstein rifiuta la possibilità di un metalinguaggio, in quanto un linguaggio che parli del linguaggio stesso sarebbe un cane che si morde la coda. Così, sintetizza il filosofo, ciò che si mostra nel linguaggio (le regole del suo funzionamento) non può essere detto.
E’ alla luce di quanto detto quindi che capiamo la citazione iniziale: per tutta l’opera si è tentato di definire il linguaggio nel senso più puro, tracciandone i limiti e descrivendone le regole fondamentali, giungendo però alla conclusione che tale sforzo, paradossalmente, non seguendo la teoria della raffigurazione e le regole da lui stesso stabilite, rischia di essere un inutile e vuoto flatus vocis.
Il linguaggio oltre il linguaggio
Così Dark Souls sul piano artistico e narrativo e il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein su quello filosofico e logico ci ricordano come ciò che possiamo dire non esaurisca la totalità della comunicazione, la quale, proprio per la mancanza di tale riconoscimento, ne esca spesso inutilmente appesantita. Troppo spesso infatti i discorsi si fanno formalmente ridondanti, troppo spesso la narrazione si fa banale e prevedibile, così che, anziché usare virtuosamente e propriamente il linguaggio, se ne abusa inutilmente, talvolta per ignoranza delle sue proprietà intrinseche. In questo senso le due opere ci mostrano direttamente sul campo che, a differenza di quanto più comunemente possiamo pensare, il linguaggio non consiste solo in ciò di cui possiamo parlare e di fatto parliamo, ma anzi, come la materia oscura nell’universo, la sensatezza della sua fenomenologia si regge su un implicito sottobosco di silenzi che, benché invisibile, è presente ed essenziale.
Emerge così, infine, una visione della comunicazione apparentemente più povera, ma in realtà viva e rigogliosa: come un disegno in negativo che, invece di concentrarsi sull’oggetto principale arricchendolo di dettagli e s sfumature di tonalità, colori tutto ciò che sta fuori dal suo soggetto, lasciando quest’ultimo in bianco e passandolo sotto silenzio, ma, proprio per questo, esaltandolo di un’inedità vitalità.