Pensare alla ricostruzione del Belpaese nel Dopoguerra è fondamentale per risollevarlo dalla crisi pandemica

Il tema della ricostruzione economica e sociale del nostro Paese è emerso come centrale e fondamentale nel discorso del Premier Draghi al Senato.

Nel suo discorso, si fa ampio riferimento alla ricostruzione avvenuta in Italia nel Dopoguerra, invitando ciascuna forza politica al dovere della coesione e della responsabilità. La differenza principale rispetto ad allora, oltre al non avere per fortuna oggi a che fare con le macerie di una guerra, sta nel fatto che le forze politiche dell’epoca erano portatrici di culture che consentivano loro di svolgere la funzione generale di indirizzo e di impulso, valorizzando al tempo stesso l’apporto delle competenze tecniche a disposizione del Paese. Oggi la situazione appare rovesciata.

Lo stato di salute dell’Italia post Seconda Guerra Mondiale

La situazione dell’Italia nel 1945 non era migliore di quella degli altri stati europei. L’economia era in ginocchio, la società arretrata, la cultura in gran parte arcaica, il prestigio internazionale minimo. Durante la seconda guerra mondiale erano morti quasi 500mila italiani, di cui 150mila civili. Il conflitto aveva attraversato l’intera penisola generando distruzione e profonde divisioni. Nonostante la guerra, la popolazione era aumentata: nel 1945
gli italiani erano divenuti 45 milioni, dai 43 del 1938. La situazione economica era nettamente peggiorata rispetto al non certo florido 1938: la produzione di carne era diminuita del 75%, quella dello zucchero si era praticamente azzerata, le scorte di grano non bastavano per garantire la sopravvivenza della popolazione. Si soffriva la fame. I generi alimentari erano razionati, mancavano i medicinali e la borsa nera prosperava. I bombardamenti, oltre alla morte di 64mila persone, avevano distrutto due milioni di locali e danneggiato altri 5 milioni. Più di due milioni di persone non avevano un tetto e molti erano costretti a coabitazioni forzate o a vivere nei campi profughi. Strade e ferrovie erano gravemente danneggiate, così come i treni e la maggior parte dei mezzi di trasporto. L’industria pesante era sostanzialmente integra, ma debole e invecchiata tecnologicamente. Il reddito delle famiglie italiane, rispetto al 1938, era dimezzato, l’inflazione galoppava. Gli addetti all’agricoltura erano il 42% della popolazione attiva, un dato da Terzo mondo. Ciò non significava solo un livello basso di reddito e una vistosa sottoccupazione, ma anche il prevalere di culture arcaiche che influivano sui rapporti sociali e su quelli tra cittadini e istituzioni.

Come si arriva alla ricostruzione e chi ne furono i protagonisti

Il principale motore di ciò che accadde in Italia nell’immediato dopoguerra fu l’affermarsi e il diffondersi di un modello di sviluppo economico misto, basato sull’intervento pubblico nell’economia attraverso l’IRI, l’ENI e gli altri enti a partecipazione statale che divennero imprenditori seguendo le regole del mercato. Così gli uomini di Alberto Beneduce fecero dell’IRI il cardine del sistema dell’industria pubblica, Enrico Mattei offrì con l’ENI l’energia necessaria a sostenere lo sviluppo, Raffaele Mattioli, Donato Menichella ed Enrico Cuccia crearono quella strana banca d’affari che fu Mediobanca. Questo sistema sarà determinante, oltre che per l’economia, anche per lo sviluppo del sistema politico italiano. Ma il miracolo italiano del dopoguerra non sarebbe stato possibile se l’Italia non avesse trovato tra la fine della guerra e l’avvio della Repubblica un leader capace di guidare con rigore morale, lungimiranza e intelligenza la delicata fase di transizione. Quell’uomo fu Alcide De Gasperi. Leader della Democrazia cristiana e presidente del Consiglio dal dicembre del 1945 al luglio del 1953. Prima con il sostegno dei partiti del CLN, quindi dei tre maggiori partiti (DC, socialisti e comunisti), infine, dal maggio 1947, con una maggioranza centrista che escludeva dal governo socialisti e comunisti.  Accanto a De Gasperi ci fu un gruppo di politici ed economisti, tra i quali occupò un ruolo rilevante, nei delicati anni dell’immediato dopoguerra, Luigi Einaudi. Questi, tra il 1945 e la primavera del 1948, nel doppio incarico di governatore della Banca d’Italia e ministro (Tesoro e Bilancio) nel IV governo De Gasperi, realizzò una spregiudicata manovra economica. Dapprima puntando a  “bruciare” il debito pubblico attraverso un’alta inflazione; quindi, con una repentina e coraggiosissima manovra monetaria, abbatté
l’inflazione ridando credibilità alla nostra moneta nei mercati internazionali. Nel giro di pochi mesi il cambio lira/dollaro passò da 900 a 600 (prima della guerra era a 19). Per ottenere questo risultato impose una brusca frenata all’economia (la crescita del PIL scese, dal 15,3% del 1947 al 5,6% del 1948), ridusse drasticamente la spesa pubblica, bloccò per quanto possibile le importazioni e restrinse il credito. Un pacchetto di manovre impopolari, fortemente osteggiate dagli Alleati perché attuate in prossimità delle elezioni del 1948, ma che si dimostrarono
efficacissime.

Dalla Ricostruzione agli anni del definitivo “Miracolo Italiano”

Tra il 1957 ed il 1963, avveniva il cosiddetto miracolo economico italiano: una vera e propria rivoluzione nella Nostra economia, che da agricola passava in pochi anni a un’economia prevalentemente industriale e lanciava l’Italia tra le più grandi potenze industriali europee e mondiali. Il Nostro paese nel giro di appena 10 anni si trasformò in un’economia prevalentemente agricola e fondamentalmente sottosviluppata rispetto agli altri paesi occidentali, in un’economia industriale di prim’ordine. Fu non solo una rivoluzione economica ma soprattutto sociale e politica, il boom economico cambiò tutto nella vita delle persone. Furono vari i fattori che spinsero il Belpaese ad adottare un cambio di marcia. Per prima cosa, la mano d’opera veniva pagata a basso prezzo: le industrie trovarono migliaia di ex contadini e giovanissimi ( a quei tempi si poteva entrare a lavorare in fabbrica anche a 14 anni) che scalpitavano per poter lavorare, e lo facevano senza troppe pretese sindacali. All’epoca pochi erano gli operai sindacalizzati, si lavoravano molte ore e si prendevano pochi soldi, ma un operaio guadagnava comunque molto di più di un contadino. Più di 1 milione di italiani si trasferirono dalle campagne alle città dove c’erano le fabbriche. Moltissimi dal Sud verso Torino e Milano, ma anche dalla stessa Pianura Padana verso le città industriali del Nord Italia. Come secondo aspetto, troviamo l’Eni e l’energia a basso prezzo. L’ENI all’epoca era un vero e proprio gigante petrolifero internazionale, aveva importanti giacimenti in tutto il mondo, inoltre scoprì proprio all’epoca dei giacimenti di gas in Italia e quindi il Nostro fabbisogno di energia era praticamente soddisfatto senza doverla andare a comprare fuori. Fondamentale, inoltre, ricordare sia il basso costo del denaro e la stabilità della lira che il “Made in Italy”, che diventa famoso in tutto il mondo. Di questo spirito, la classe politica che allora fu chiamata alla guida del Paese seppe farsi interprete con straordinaria efficacia. Da De Gasperi a Togliatti, da Nenni a Einaudi era quella una classe politica non ancora segnata da granitiche appartenenze partitiche: alle elezioni del 1946 per la Costituente, i deputati che provenivano dalle libere professioni erano il 43,7%, quelli reclutati negli apparati di partito il 18,4%. Nel 1953 alle elezioni politiche queste quote erano scese al 33,8% per i provenienti dalle professioni e salite al 26,2% per quelli provenienti dai partiti.

 

 

 

 

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