New York avvolta da un fumo arancione: non si tratta di un filtro, ma della realtà. Come ci siamo arrivati?
Già dai tempi del boom economico si parlava di inquinamento globale, lo stesso che adesso è causa dell’irrespirabile aria di New York. Ma cosa possiamo fare per risolvere la situazione? Scopriamolo.
Gli incendi in Canada e il nuovo colore della Grande Mela
E’ già da qualche giorno che un’epidemia di incendi si è diffusa per le foreste del Canada, causando delle fiamme talmente alte che non si vedevano di simili dai famosi incendi in Australia del gennaio 2020. Purtroppo però, tutta la CO2 e le ceneri di quegli alberi bruciati il vento li ha spostati più a sud, dove ai tempi di oggi risiede New York, chiamata anche “La Grande Mela”.
E’ dall’8 giugno 2023 che la città si ritrova completamente circondata da questa inspiegabile aria di colore arancione. Quest’ultima che limita la vista e causa danni respiratori è ormai la ragione di migliaia di lockdown nella città. L’aria ha raggiunto picchi di pericolosità che non si vedevano da almeno 2 decenni. Ma ciò com’è stato possibile?
I 400 incendi divampati in territorio canadese e in Quebec, che hanno già inghiottito oltre 39.600 km quadrati di foreste, più di 10 volte quelle bruciate lo scorso anno a quest’ora, sono probabilmente causati dalla facilità con cui certe foreste si incendiano. Secondo gli scienziati, le alte temperature e la siccità rese più probabili dal riscaldamento globale e di recente sperimentate dal Canada hanno reso le foreste più vulnerabili agli incendi, che hanno approfittato della legna secca per divampare.
La stessa cosa sta succedendo in America: le autorità hanno chiesto ai cittadini di restare il più tempo possibile al chiuso, le scuole hanno cancellato le attività all’aperto, i voli hanno accumulato ore di ritardo, eventi sportivi e culturali hanno saltato le loro date prefissate, zoo e mercati all’aperto hanno serrato i battenti,. Invece, chi è dovuto perforza uscire ha almeno indossato mascherine di buona qualità come le N95.
L’indice della qualità dell’aria oltretutto, calcolato dall’EPA, l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambient, ha raggiunto in breve valori superiori a 400, definiti “pericolosi” per tutti. Ciò è pericoloso non solo per la salute, ma anche per un possibile aumento degli accessi al Pronto Soccorso e un blocco delle entrate.
I sintomi più comuni sono:
- mal di testa improvvisi
- bruciore agli occhi
- tosse
- vertigini
- tachicardia
- dolore al petto
La cosa più pericolosa è proprio la concentrazione molto elevata di polveri sottili (PM2.5) capaci di penetrare negli alveoli polmonari e diffondersi nella circolazione sanguigna. Questi livelli di allarme, inediti per i newyorkesi, sono ormai una nuova norma in megalopoli asiatiche assai inquinate come Giacarta o Nuova Delhi. In Asia Meridionale si trovano 9 tra le 10 città con il peggiore inquinamento atmosferico al mondo, e qui i livelli persistenti di smog pericoloso sono all’origine di 2 milioni di morti precoci ogni anno. A New York la situazione critica potrebbe protrarsi fino al weekend.
È un’emergenza, evento senza precedenti (il sindaco Eric Adams)
La colpa è dell’uomo o della natura? Scopriamolo
In tutto il mondo bruciano boschi, boscaglie e persino la foresta pluviale. Le fiamme stanno divorando enormi aree di foresta nella regione amazzonica e in molte parti dell’Africa, ma negli ultimi anni si sono verificati incendi particolarmente gravi anche in Siberia e in Australia. Anche in Europa gli incendi boschivi si moltiplicano con furia devastante: gli ultimi casi si sono verificati in Portogallo, Spagna, Grecia, in Italia e nell’area intorno a Berlino.
La causa principale è la deforestazione, che si sta rapidamente diffondendo soprattutto a causa della conversione delle foreste in terreni agricoli. Per esempio, sappiamo che nell’Amazzonia brasiliana la deforestazione è aumentata del 96% rispetto allo stesso mese di maggio dell’anno scorso. Questi incendi boschivi su larghissima scala sono favoriti dal clima sempre più caldo e secco dovuto ai cambiamenti climatici e, ad esempio in Brasile, anche dall’indebolimento delle leggi per la protezione delle foreste e dall’applicazione molto lassista della legge esistente, oltre che dalla riduzione del budget destinato alle autorità preposte alla protezione dell’ambiente. In molte regioni la stagione degli incendi diventa sempre più lunga e gli incendi boschivi estremi sempre più frequenti.
Di conseguenza, possiamo dire che oltre il 75% di tutti gli incendi boschivi incontrollati ha origine antropica, vale a dire che è causato dall’essere umano. L’espansione dell’agricoltura, la creazione di piantagioni di palme e di altre specie vegetali nonché il disboscamento illegale e insostenibile aggravano la distruzione degli habitat naturali e indeboliscono le foreste, aumentando così il rischio di incendi estesi e incontrollati.
Ma anche il cambiamento climatico favorisce incendi boschivi sempre più violenti, soprattutto nell’emisfero settentrionale: esigue nevicate in inverno insieme a piogge sporadiche e temperature elevate in estate seccano i terreni superficiali e la vegetazione. Bastano un fulmine, un fuoco di un barbecue non completamente spento in combinazione con il vento o un mozzicone di sigaretta per scatenare fiamme enormi.
Oltretutto, se gli incendi non sono semplicemente una conseguenza del surriscaldamento globale, contribuiscono anche a quest’ultimo in un loop infinito di CO2. Gli incendi boschivi incontrollati sono responsabili del 10% delle emissioni globali annue di gas serra, che corrisponde all’incirca alle emissioni annue dell’intera UE. Mentre le foreste bruciano e vengono distrutte dal fuoco, rilasciano nell’atmosfera il carbonio che avevano assorbito durante la crescita e accumulato nel proprio legno. Ciò significa che gli incendi boschivi frenano notevolmente i nostri sforzi di tutela del clima: se gli incendi continueranno ad avvampare come negli ultimi anni, verranno rilasciati milioni di tonnellate di CO2.
Si tratta quindi di un circolo vizioso: da un lato la crisi climatica alimenta gli incendi boschivi in tutto il mondo e dall’altro ciò rilascia una quantità sempre maggiore di CO2, che a sua volta favorisce il cambiamento climatico.
Dal boom economico all’agenda 2030
Tutto è partito con il boom economico dopo la seconda guerra mondiale, quando il benessere in Europa e negli Usa ha alimentato la produzione di plastica. Il “boom economico” infatti impone un nuovo modo di vivere. Nessuno strumento ebbe un ruolo così rilevante nel mutamento molecolare della società quanto la televisione, che entrò nelle case degli italiani nel 1954 dopo circa vent’anni di sperimentazioni. La produzione di plastica, la stessa che indirettamente fa bruciare le foreste, ebbe una crescita esponenziale nella politica del consumismo e “dell’usa e getta”.
Da quel momento non c’è stato uno stop. Anzi. Basti pensare che dal 2000 al 2015 è stato prodotto il 56% di tutta la plastica fabbricata nella storia umana, raggiungendo circa 370 milioni di tonnellate nel 2019. In termini di massa equivale a più del doppio della massa di tutti gli organismi che vivono attualmente sulla Terra.
L’associazione Greenpeace ha lanciato un allarme: secondo le stime più accreditate, se la curva di crescita esponenziale dovesse seguire l’attuale traiettoria, i volumi prodotti ogni anno nel mondo raddoppierebbero entro il 2030-2035 per triplicare nel 2050, raggiungendo 1.100 milioni di tonnellate.
Nonostante i numeri eloquenti e l’urgenza di un repentino cambio di rotta, gli impegni presi finora da aziende e governi in tutto il mondo non sono sufficientemente ambiziosi e tali da arginare concretamente i problemi ambientali. I differenti scenari esaminati in un recente studio indicano che senza un piano di riduzione nella produzione e consumo, la quantità di plastica immessa negli oceani è destinata ad aumentare: dai circa 11 milioni di tonnellate annue attuali si passerebbe ai 29 previsti per il 2040, equivalente a 50 chili di rifiuti per metro quadro di costa in tutto il mondo.
Per contrastare il problema, la comunità degli Stati ha approvato l’Agenda 2030 i cui elementi essenziali sono i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS/SDGs, Sustainable Development Goals) e i 169 sotto-obiettivi, i quali mirano a ridurre povertà e ingiustizie sociali e a lottare contro i cambiamenti climatici, in funzione del miglioramento economico e del progresso della società.
L’obiettivo in particolare che ci interessa è il 15:
Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre, gestire sostenibilmente le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e far retrocedere il degrado del terreno, e fermare la perdita di diversità biologica.
L’Agenda fissa alcuni importanti obiettivi: garantire la salvaguardia degli ecosistemi di acqua dolce terrestri e dell’entroterra, in modo particolare delle foreste, delle paludi, delle montagne e delle zone aride; arrestare la deforestazione, ripristinarle dove necessario e aumentare ovunque la riforestazione; combattere la desertificazione; porre fine al bracconaggio e al traffico delle specie protette di flora e fauna.
La deforestazione e la desertificazione, causate dalle attività dell’uomo e dal cambiamento climatico, pongono sfide considerevoli in termini di sviluppo sostenibile, e hanno condizionato le vite e i mezzi di sostentamento di milioni di persone che lottano contro la povertà, dallo smistamento delle plastiche in India alla nuova isola di plastica, che però tanto nuova non è.