L’estetica del turbamento ripercorsa attraverso l’opera di Damien Hirst.
A thousand years (1990), di Damien Hirst
Capofila degli Young British Artists (YBAs), Damien Hirst è il vero bad boy dell’arte contemporanea. L’artista inglese riporta l’arte alla dimensione del coinvolgimento fisico, non più solo emotivo, e costringe il suo spettatore a reagire di fronte alla violenza e all’aggressività anche solo visive della sua opera. Di fronte a una realizzazione come quella di A thousand years, in cui l’assurdità del ciclo vitale viene crudamente presentata allo spettatore da una colonia di larve e mosche da una parte e una testa di vitello mozzata dall’altra, la prima reazione è certamente di tipo fisico, istintiva, e quasi sempre repulsiva. Solo in un secondo momento la mente si predispone a indagare il senso profondo dell’opera. Repulsiva doveva essere anche stata la reazione dello spettatore che a Venezia, in occasione della Biennale del 2017, si era ritrovata di fronte a un enorme squalo tigre di oltre quattro metri e con la bocca spalancata sotto formaldeide. Il titolo dell’opera era The physical impossibility of death in the mind of someone living, che perlomeno lascia il beneficio del dubbio a un’intenzione forse anche filosofica più profonda, sebbene gli animalisti e la critica continuano a non essere d’accordo. Un’arte aggressiva, violenta, che vuole turbare e disturbare il suo spettatore, costringendolo a riflettere su temi che, la maggior parte delle volte, si preferisce respingere. Un’estetica del turbamento. Ma quale e quanto spazio è concesso al brutto in arte? Ed è veramente arte se suscita in noi disgusto?
L’arte aggressiva di Hirst
Ironia e orrore, bellezza e crudeltà, nascita e morte sono i poli tra i quali oscilla il senso teatrale di un’opera che come quella di Hirst sa presentarsi sempre in modo diretto e inconfutabile. L’ambiguità del messaggio, che contrasta con la cieca violenza della forma, colpisce e fa centro. Sebbene appaia trasgressivo e irritante, poco educato, talvolta irresponsabile nell’elaborazione del suo punto di vista e alquanto sbrigativo nella gestione manageriale e cinica del proprio personaggio, l’artista britannico riesce sicuramente bene nel suo intento, che è quello di causare uno shock nello spettatore. Su temi, fra l’altro, tutt’altro che facili da digerire, come l’incombenza della morte e la caducità dell’esistenza. L’impatto emotivo è così forte da non lasciare spazio al pubblico per ignorare il messaggio, il tema su cui vuole far riflettere. E per questo Hirst è l’artista scandaloso per definizione. Il suo amore per le immagini forti è dichiarato fin da subito, così come il suo scopo di aggredire lo spettatore. Hirst costringe a riflettere su come la nostra società abbia eliminato la morte, ma questa incombe ancora e si infiltra proprio laddove, come nei musei, sembrerebbe bandita. La volontà dell’artista di fare i conti con una brutalità e un’immediatezza sconvolgenti lascia senza fiato. La tragedia del fallimento e della morte individuale – dopo il fallimento di una società che si era immaginata solidale ma che resta solo utopia – è sempre più inevitabile, e si impadronisce delle coscienze di quest’epoca. In questo clima angoscioso e tragico gli artisti cercano di edificare punti di riferimento, di ritornare a produrre simboli che interroghino l’ansia e le diano una forma. Che a Hirst sembra riuscire particolarmente bene.
The impossibility of death in the mind of someone living (1991), di Damien Hirst,
L’estetica del turbamento
Ma un’opera d’arte può essere definita ancora tale nel momento in cui siamo portati ad allontanarci da essa? La differenza tra una ben riuscita rappresentazione del brutto e la sensazione di disgusto è molto sottile, e i mezzi dell’arte contemporanea non fanno che complicare la questione. Nel paragrafo XLV della Critica del giudizio Kant affermava che l’unica cosa che non può essere rappresentata è esattamente il disgusto, in tedesco Ekel, un termine strettamente legato al senso germanico di nausea. Un’arte come quella di Hirst, fatta di teste di vitello mozzate e colonie di larve, può inizialmente suscitare una repulsione nello spettatore. Una reazione che Kant, appunto, definirebbe di disgusto. Ed è qui che sta, ci insegna il filosofo di Könisberg, l’unico limite della rappresentazione artistica: perché ciò che ci disgusta non è possibile addomesticare nemmeno in arte. E’ anche vero che Kant non aveva idea della direzione che avrebbe preso l’arte, in particolare da Duchamp in poi, e nemmeno avrebbe visto il romanticismo. Dal giorno che lo scultore francese capovolse l’orinatoio nel 1917, in una delle più straordinarie opere contemporanee, l’oggetto diviene sorpresa per la mente e l’arte atto mentale. Un’arte che, prima di tutto, deve suscitare emozioni, positive o negative che siano. E forse, almeno nel caso di Hirst, il più lontano possibile dalla purezza e la sua illusione.
Immanuel Kant (1724-1804)
Perché costringerci a pensare alla morte?
Perché costringerci a pensare alla morte, quando potremmo vivere benissimo delle nostre innumerevoli distrazioni senza lasciarci turbare da pensieri come questi? Valhar morgules, direbbe Arya Stark di Game of Thrones sulla scia del maestro Syrio Forel. ”Ricordati che devi morire”. Ma vogliamo proprio saperlo? La grandezza dell’uomo, avrebbe detto il filosofo Pascal, sta nell’essere consapevole della propria miseria. E rifuggire sé stessi, ignorare la propria condizione, non è nemmeno un’alternativa degna dell’uomo: bisogna accettare lucidamente la realtà, perché è anche qui che sta il senso profondo della nostra natura. Lo stesso Leopardi asseriva che lo scopo della filosofia fosse ricordare all’uomo il vero, per quanto arido esso possa essere. Ma è anche vero che, una volta preso atto di questo, non avrebbe senso trascorrere la propria vita meditando sulla morte, come Hirst vorrebbe che facessimo. La società tenterà forse di distrarci da questa verità da cui, da che esiste la vita sulla terra, nessuno può rifuggire, ed è bene prendere consapevolezza del significato profondo della nostra umanità. Ricercando però sempre un equilibrio con le infinite ricchezze che la vita stessa ha da darci.