Lego lancia la produzione di nuovi mattoncini “verdi”: la sostenibilità di un colosso della plastica

L’azienda di giocattoli di Billund punta a mattoncini 100% sostenibili entro il 2030

I Lego come li conosciamo oggi sono in produzione sin dalla fine degli anni ’40 e hanno segnato l’immaginazione di moltissime persone, come questo famoso set di un castello prodotto nel 1978

Non molti sanno che l’azienda danese Lego fu fondata nel 1916 dal falegname Ole Kirk Kristiansen, ma di sicuro la stragrande maggioranza ha visto e giocato coi mattoncini in plastica colorata la cui produzione iniziò nel 1949. Da allora i macchinari hanno stampato miliardi di pezzi che hanno alimentato la fantasia e il collezionismo di milioni di persone. Tuttavia, una produzione di tale livello richiede una quantità di plastica elevatissima, con evidenti costi per l’ambiente: l’azienda però non si scoraggia e lancia un progetto di conversione sostenibile che soddisfi i desideri dei consumatori e il proprio salvadanaio.

Costruire un business sostenibile mattone dopo mattone

Al giorno d’oggi una delle questioni più discusse è senza dubbio la sostenibilità del nostro stile di vita, nel senso più ampio possibile: dalle scelte nell’alimentazione a quelle dei mezzi con cui spostarci, dalle fonti che usiamo per produrre l’energia di cui abbiamo bisogno ai metodi che applichiamo per smaltire o riciclare i rifiuti. In un tale contesto, è fondamentale per un’azienda saper operare delle scelte ragionate per rendere sostenibile il proprio operato in ogni sua fase. Essa deve, infatti, scegliere con cura le fonti da cui ricava energia, possibilmente rinnovabili, ma anche renderne efficiente l’utilizzo ottimizzando macchinari e processi. Non solo: essa deve anche prestare attenzione alle materie prime che compra e a come le lavora, fornendo al consumatore un prodotto col minor impatto possibile. Non si può negare che la valutazione dell’impatto ambientale sia una questione complessa: essa deve tenere conto di molti fattori che vanno al di là delle semplici valutazioni della biodegradabilità del materiale impiegato, come ad esempio l’energia consumata per la produzione e per l’eventuale riciclo, il ruolo giocato dai mezzi di trasporto utilizzati per approvvigionamento e distribuzione, la riutilizzabilità del prodotto finito… Lego è sempre stata attenta a tutti questi aspetti e negli ultimi anni ha moltiplicato i propri sforzi. In primo luogo, uno dei principali punti di forza dei mattoncini è la loro compatibilità universale: la gamma di colori e tipologia di pezzi è cresciuta a dismisura per assecondare le richieste estetiche dei set, ma non si avrebbe nessun problema ad unire componenti di oggi ad altri del 1950. Per l’azienda si tratta di una caratteristica fondamentale dal momento che, secondo le proprie stime, il 96% delle persone conserva i kit o li passa alle generazioni successive. Ciò fa sì che i Lego siano molto diversi dalla plastica “usa e getta”, ma non toglie il fatto che una tale mole di plastica, destinata a crescere ancora, sia un problema che potrebbe gravare molto nel momento di un eventuale smaltimento futuro. A ciò si accompagna la plastica dei sacchetti che dividono i pezzi nelle scatole e il cartone delle scatole stesse: negli ultimi anni, l’azienda si è prodigata per ridurne quantità e dimensioni, così da ridurre anche la necessità di spazio e capacità di carico di camion e magazzini. L’azienda è poi risalita fino alla fonte della propria responsabilità in materia di ambiente, stringendo una partnership con WWF Danimarca e (secondo le dichiarazioni da essa rilasciate) affidandosi unicamente a fonti rinnovabili di energia, prima fra tutte l’eolico. Di recente, ha scelto di compiere il grande passo: l’impegno è quello di utilizzare solo materie riciclate o rinnovabili entro il 2025 e di rendere completamente sostenibile la propria produzione entro il 2030. Per fare ciò, ha iniziato ad abbandonare la plastica usata in precedenza, per un nuovo composto più ecologico. La notizia è riportata in un articolo del sito phys.org datato 8 marzo, ma l’azienda si è rifiutata di divulgare il proprio segreto aziendale e quindi la composizione del nuovo materiale resta segreto. Quel che si sa è che ad oggi circa 80 dei 3600 tipi di pezzi diversi esistenti sono prodotti in un polietilene ricavato dalla canna da zucchero, anziché in ABS (Acrilonitrile Butadiene Stirene) come gli altri. Si tratta di pezzi come alberi o cespugli, che non richiedono incastri perfetti e alte capacità di tenuta e quindi sono perfetti per la sperimentazione e il perfezionamento del materiale. La volontà della Lego è, infatti, quella di non far sentire al cliente la transizione del materiale, mantenendo la vivacità dei colori, la resistenza e la capacità di rimanere incastrati, così da essere ancora compatibili con i vecchi modelli.

I pezzi ad oggi prodotti con una plastica sostenibile sono foglie, alberi e cespugli, che essendo solo decorativi non hanno le stesse necessità di resistenza e durata dei classici mattoncini.

Il mondo della plastica è fatto di mattoncini

Tutte le volte che parliamo di sostenibilità e di plastica pensiamo a bottiglie, cannucce,. piatti e posate usa e getta… qualche volta agli indumenti in materiali sintetici e alla plastica presente in oggetti dalla struttura più varia come apparecchi elettronici, elettrodomestici e molto altro. Quello che non sempre viene in mente è però la struttura molecolare della plastica, la sua essenza più intima e primordiale. Cerchiamo allora di fare chiarezza. Se ci affidiamo alla IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry, ovvero Unione internazionale di chimica pura e applicata), le materie plastiche sono: “materiali polimerici che possono contenere altre sostanze finalizzate a migliorarne le proprietà e ridurne i costi”. Ciò che scopriamo da questa frase è che la plastica con cui sono fatti i mattoncini Lego… funziona anch’essa come un set Lego. Di tipologie di plastica ne esistono moltissime, ma tutte sono definite in chimica come polimeri. Sono, infatti, composti organici dall’alto peso molecolare, ovvero formati da lunghissime catene di atomi: in particolare, si chiamano “poli”-meri perché unione di molecole base dette monomeri. I monomeri di una stessa catena possono essere tutti uguali tra loro, come nel caso del polietilene o del polistirene: nel primo caso, sono tutte molecole di etilene (il più semplice degli alcheni, molecole di solo carbonio e ossigeno in cui è presente un doppio legame tra due molecole di carbonio), nel secondo sono molecole di stirene, un idrocarburo aromatico (ovvero in cui è presente almeno un anello benzenico). Si parla dunque di omopolimeri. Se, invece, nella catena si trovano monomeri di specie differenti si parla di copolimeri: sono esempi la gomma SBS (stirene-butadiene-stirene) usata per suole e pneumatici e il polistirene anti-urto (usato per imballaggi e giocattoli). Il processo chimico con cui si crea solitamente un polimero è detto, non a caso, polimerizzazione e si distingue in due macrocategorie: di addizione e di condensazione. Due monomeri, infatti, possono unirsi direttamente, mettendosi “in fila”, oppure fondersi perdendo alcuni atomi che vengono rilasciati come molecola a basso peso molecolare (solitamente acqua). Ognuno di essi è quindi l’anello (o mattoncino) di una catena potenzialmente infinita e alla quale si possono apportare modifiche a seconda delle necessità, aggiungendo cariche, sostituendo alcuni atomi o calibrando la sintesi per preferire certe configurazioni spaziali delle molecole. Molecole così grandi e “raffinate” comportano molti problemi: spesso derivano dal petrolio, si degradano difficilmente in natura, possono essere tossiche per l’uomo o per altri animali e/o piante… Per questa ragione, la sperimentazione per cercare plastiche degradabili e/o derivanti da fonti sostenibili è oggi attiva più che mai.

Le formule di struttura dei polimeri sintetici dello stirene, della formaldeide e della gomma naturale: la caratteristica fondamentale dei polimeri è proprio quella di essere catene ripetute della stessa molecola o monomero (fonte: Treccani.it)

Amido, canna da zucchero e batteri: le bio-plastiche ci salveranno?

Nel corso degli anni si sono trovate molte soluzioni, più o meno efficaci, per rendere sostenibile e compatibile con l’ambiente il nostro consumo di plastica. La definizione di bioplastica non è però universale e le controversie si focalizzano perlopiù su due aspetti: il nuovo polimero deve derivare da biomassa ed essere biodegradabile. Per essere definita bioplastica deve possedere almeno una delle due caratteristiche, ma c’è ad esempio chi preferisce usare il termine “plastiche vegetali” per quei materiali che derivano da biomassa, ma che non sono comunque biodegradabili. Un piccolo appunto va fatto: si preferisce evitare il termine “origine naturale” perché molto poco significativo, visto che anche il petrolio grezzo è prodotto dalla natura (in milioni di anni) e non da ricercatori o operai in un azienda. In genere le bioplastiche derivano da zuccheri complessi di piante, come amido o cellulosa, e animali, come la chitina (che compone una buona parte dell’esoscheletro degli insetti).Si riduce la catena al componente base, il glucosio, da cui si riparte sintetizzando molecole come l’acido lattico oppure le si plasticizza ad esempio con l’aiuto del glicerolo. Si ottengono materiali anche da altre molecole, come proteine animali (per esempio del latte), ma come fa notare Carlo Santulli, esperto in materiali sostenibili dell’Università di Camerino, queste non presentano solitamente caratteristiche di plasticità o termoplasticità. I vantaggi di plastiche prodotte da biomassa sono evidenti, prima fra tutti la riduzione dei rifiuti e la loro valorizzazione, accompagnata dalla riduzione dell’uso degli inceneritori. Un altro passo in avanti che si sta cercando di compiere è quello di svincolare le aziende dalla necessità di energia (specialmente se proveniente da combustibili fossili) e da anni la ricerca spinge sulle bioplastiche sintetizzate da batteri: già nel 2002 un team di scienziati tedeschi, canadesi e cinesi aveva modificato geneticamente dei batteri di Escherichia coli per far sintetizzare loro delle catene di politioesteri. Anche un’azienda italiana si è cimentata in questa produzione, introducendo sul mercato i polyhydroxyalkanoato o PHAs, polimeri che in natura derivano dalla fermentazione batterica di zuccheri. Il dibattito rimane comunque aperto perché i punti da affrontare sono moltissimi e non sempre sostituire un tipo di plastica con un altro comporta dei vantaggi in materia di sostenibilità. Ridurre l’impronta ecologica è un’operazione costosa e lunga, frutto dei risultati di tanti piccoli passi sommati tra loro, dove però il totale è maggiore della somma dei piccoli addendi. Speriamo allora che sempre più aziende nel mondo siano disposte a compierli, a mettere insieme i mattoncini e costruire castelli, astronavi e macchine sostenibili, proprio come i nostri amati Lego.

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