Le ballate medioevali cantate da giullari e rianimate da De Andrè

La Letteratura Medioevale è una varietà infinità di caratteri, la più irriverente sopravvive nei secoli e Fabrizio De Andrè ne diventa il maggior interprete del 900.

Il Medioevo, secoli di trasformazioni sociali, antropologiche, politiche, religiose: un periodo storico il quale nasce accompagnando il morente impero romano fino ad arrivare ad i secoli di lotte comunali e di monarchi stranieri. La letteratura medioevale che si sviluppa in questo enorme lasso di tempo comprende tante scuole e stili quanti sono i secoli che definiscono, scolasticamente, il lungo periodo medioevale. Un prodotto letterario quindi estremamente ricco, al cui cospetto risulta una reazione dicotomica: o si ama o si odia: molti hanno disprezzato il Medioevo e di conseguenza tutto ciò che in questo periodo è stato prodotto, altri, come il Faber, hanno ben pensato di rianimare quelle ballate. Per far ordine va chiarito cosa piacesse in particolare a De Andrè ed altri come lui.

La poesia comico-parodica

Questo tipo di poesia nasce negli stessi anni dello Stil Novo, ossia nella seconda metà del XIII secolo, sempre in Toscana. Essa è parodica poiché deriva da parodia (dal greco “controcanto”) ed è appunto parodia dell’operazione lirica coltissima sperimentata dalla poesia d’Amore dello Stil Novo. I massimi esponenti di questo tipo di poesia furono il fiorentino Rustico Filippi e il senese Cecco Angiolieri. In entrambi i casi notiamo come la produzione di opere auliche e parodiche sia identica. Ciò sta a significare come la formazione di questi poeti fosse elevatissima a tal punto da poter scrivere come gli stilnovisti, ma così arguti, irriverenti e capaci da essere in grado di far loro il verso. Persi poi nel tempo, la poesia medievale nasceva con accompagnamenti musicali, poiché era un prodotto che andava cantato a corte o in ambienti rinomati, la poesia comico parodica ovviamente era indirizzata un po’ a tutti ed i giullari ne erano i più esperti interpreti.

e in Francia, lo stesso

In Francia operò una personalità tra le più sfuggenti, ambigue, enigmatiche e, proprio per questo, affascinanti dell’intera storia della letteratura francese, François Villon. Di lui si sa praticamente nulla: si laureò giovanissimo alla Sorbonne, vagò in giro per la Francia e fu condannato alla forca, ma non sappiamo dove e quando morì, sicuramente non su quella forca a lui destinata. La sua poesia affonda le radici nel genere comico, rappresentato da quel buontempone di Cecco. Da questa lunga e florida tradizione Villon mutua temi quali la condizione esistenziale malcerta, dedita alla gozzoviglia e allo sperpero, l’esaltazione del vizio, la disposizione all’irrisione e alla provocazione. Temi che tuttavia rinnova, rendendoli estremamente moderni.

Faber Nostrum

Pochi sanno che De Andrè da piccolo suonava il violino, ancora meno sanno quale fu la prima cassetta regalatagli quando iniziò a suonare la chitarra. Si trattava del terzo disco prodotto da Georges Brassens, il più grande chansonnier del secolo scorso. Questo punto fondamentale fa sì che il giovanissimo De Andrè si avvicini da subito a quel genere musicale interpretato dal collega oltralpe, con forme metriche che la critica letteraria chiama ballata, canzone medievale e madrigale. Brassens mise in musica una miriade di testi di Villon: da Balldade des dames du temps jadis a il più noto Testament. Su questa scia si mosse il nostro Faber. Prima tradusse dal francese diverse canzoni di Brassens che oggi sono delle vere e proprie pietre miliari, come Le Passanti (originale poesia di Baudelaire), Il Gorilla e Morire per delle idee. Poi di Villon stesso, come La Ballata degli impiccati. In un secondo momento De Andrè decise di guardare ai poeti comici italiani, gli originali, se vogliamo, infatti mise in musica alcuni testi di Cecco Angolieri, la più nota il celebre S’i’ fossi foco. Poesia che sempre ritorna, riacquista la musicalità con sui un tempo veniva cantata.

Georges Brassens

 

Medioevo che sempre ritorna

Come in un chiasmo Villon, Brassens, De Andrè, Cecco, le parole non reticenti e la forza espressiva di questi poeti si intersecano l’un l’altro in un sodalizio immortale. Capaci sia di cantare la bellezza ineffabile e caduca della donna tanto amata, che di criticare in parodia la società che li circonda. I due cantautori novecenteschi screditati e incompresi come i loro modelli medievali, proprio per questa loro irriverenza, hanno vissuto la propria vita vivendo delle idee cantate nelle loro canzoni. Né Brassens né De Andrè accettarono mai riconoscimenti quando la critica iniziò a capire la grandezza di questi, entrambi hanno preferito morire per le loro idee. Infatti il primo chiese solamente di poter essere sepolto a Sète come Paul Valery, richiesta messa in musica (ascoltatela!), il secondo chiedeva di non essere chiamato poeta, ma semplicemente cantautore.

Poiché la poesia, le sue idee, le sue parole sono un po’ come il mare che sempre ritornano.

La mer, la mer, toujours recommencée.

 

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