L’assoluzione di Mina Welby e Marco Cappato è un passo avanti per l’eutanasia in Italia

Mina Welby e Marco Cappato, rispettivamente copresidente e tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, sono stati assolti. I giudici della corte d’assise d’appello ha confermato l’assoluzione di primo grado.

Il procuratore generale di Genova Roberto Aniello aveva chiesto la conferma dell’assoluzione.I due erano stati assolti in primo grado dall’accusa di assistenza al suicidio offerto a Davide Trentini, malato di Sla e morto in una clinica in Svizzera nel 2017. Questo episodio (e non solo) ha contribuito al lunghissimo dibattito tra “il diritto di scegliere” (eutanasia) e “il diritto alla vita”. Diritti, i quali vengono affrontati in maniera piuttosto differente sia dal punto di vista dell’ordinamento internazionale che da quello interno.

Come viene vista l’eutanasia in alcuni ordinamenti internazionali

Il termine “eutanasia” deriva dalle parole greche eu, buona, e thanatos, morte, e vorrebbe individuare una o più modalità per permettere di giungere ad una morte non dolorosa, anche detta “dolce morte”, al fine di evitare, o quantomeno ridurre al minimo, le sofferenze dovute a particolari malattie terminali. Le pratiche che si possono riferire all’eutanasia sono sicuramente varie e si distinguono anche sul piano morale e giuridico: abbiamo l’eutanasia attiva, rappresentata da una azione che procura direttamente la morte del malato, con intento dichiaratamente caritatevole, ad esempio attraverso la somministrazione di sostanze venefiche o il soffocamento; molti approcci (giuridici, morali, religiosi) negano che la si possa distinguere in modo sostanziale dall’omicidio. Anche da un punto di vista della deontologia medica, qualche complicazione concettuale sorge dalla non semplice riconducibilità dell’eutanasia attiva ai concetti fondanti di medicina, diagnosi e terapia. Si ha poi l’eutanasia passiva, in cui si sospendono tutti gli interventi di sostegno alla vita del soggetto (trattamenti terapeutici o nutrimento) provocandone la morte; questa forma sostanzialmente diversa dall’eutanasia attiva, in quanto la morte sovviene in modo “naturale”. La terza forma è quella del cosiddetto suicidio assistito che consiste nel fornire a una persona i mezzi per togliersi la vita in modo poco doloroso. A differenza dell’eutanasia passiva, la morte quindi non è naturale; ma a differenza dell’eutanasia attiva, colui che assiste il suicidio non partecipa direttamente alle azioni che portano alla morte del paziente. Ovviamente, sulla base di questi assunti, il panorama normativo a livello internazionale è dei più variegati. Ad esempio, in Olanda, paese che, nel 2000, per primo al mondo ha legalizzato l’eutanasia, questa è praticabile a condizione che sia richiesta ripetutamente e personalmente dal paziente al proprio medico. La richiesta include la compilazione di un questionario di 50 domande. Inoltre, si deve trattare di una patologia per la quale non vi sia una cura praticabile, è necessario il parere conforme di un secondo medico e la procedura deve essere comunicata alle competenti autorità. A partire dal 2004, l’eutanasia ha trovato applicazione anche per bambini di età inferiore ai 12 anni per i quali, però, è necessaria l’autorizzazione dei genitori. In Austria, viceversa, nel 1977 è stata abrogata una legge permissiva sull’eutanasia. Nella Confederazione Elvetica, è previsto e tollerato il suicidio assistito, attuato in strutture private all’esterno delle istituzioni medico-ospedaliere: in alcuni casi, comunque, risulta alquanto labile la linea di confine tra simili pratiche e l’eutanasia passiva. Nei paesi scandinavi, il panorama è abbastanza omogeneo: in Svezia, l’eutanasia attiva è vietata mentre il suicidio assistito è tollerato; in Finlandia, risulta legalizzata l’eutanasia passiva; in Norvegia, per procedere all’eutanasia passiva è necessaria la richiesta dell’interessato o di un suo prossimo congiunto, in caso di incoscienza. In Germania, il suicidio assistito è tollerato e praticato, purché il malato sia capace di intendere e di volere e ne faccia esplicita richiesta; l’eutanasia attiva, invece, è proibita. In Francia, la recente legge dell’aprile 2005 relativa ai diritti dei malati terminali riconosce loro la possibilità di richiedere una “degna morte”: viene confermato il primato delle cure palliative e, regolando l’eutanasia passiva, si ribadisce il divieto di quella attiva. Nel Regno Unito, l’eutanasia è assimilata all’omicidio e passibile di pene fino a 14 anni di carcere; alcune pronunce difformi, comunque, sono state adottate da corti locali.

Come viene garantito il diritto alla vita: uno sguardo all’Europa e alle Americhe

Il diritto alla vita è senza dubbio il primo diritto ad essere sancito. Questo mette in luce la centralità di questo diritto, perché senza la vita, ogni altro diritto perderebbe senso. Con la vita, possiamo godere dei diritti umani. Questo che è un assunto incontrovertibile, in realtà, poi, dal punto di vista attuativo presenta delle difficoltà che l’ordinamento internazionale non è riuscito ancora a disciplinare. Queste difficoltà sono legate alla nozione di “vita”. Dunque, non si capisce il momento in cui vi è “vita” e momento in cui “non vi è vita”, diritti del nascituro e la domanda se un diritto alla vita possa essere correlato a un diritto di scelta di morire. Questi due aspetti sono solo marginalmente disciplinati dai trattati sui diritti umani, perché la nozione di vita non trova una definizione unanime: anche a livello di ordinamenti nazionali e a livello singolo umano, abbiamo riferimenti molto differenti. Per alcuni, la vita comincia già dal concepimento; per altri, la vita inizia nel momento in cui il feto viene dato alla luce. Vi è una terza posizione, in cui, si ritiene che il feto è in vita quando comincia a respirare autonomamente. Evidentemente, a fronte di questa varietà di posizioni, il diritto internazionale può farsi portatore o di una visione generale della comunità internazionale o di una visione limitata di alcuni stati. Dunque, bisogna far leva sulle norme di natura cogente. Per quanto riguarda i trattati regionali dei diritti umani, abbiamo un’eccezione rappresentata dalla Convenzione interamericana (1969), la quale all’articolo 4 afferma che il diritto alla vita, in generale, inizia dal momento del concepimento. Questa convenzione mira alla tutela più completa possibile dell’essere umano. Attenzione, però, perché è importantissima l’espressione “in generale” , la quale è stata interpretata dagli organi di controllo in modo piuttosto estensivo, perché fin dagli anni Ottanta, la Commissione interamericana ha affermato che l’espressione “in generale” contempla la possibilità che almeno in alcuni casi vi possano essere delle situazioni in cui il concepito non deve essere considerato come portatore di diritti. Venendo alla Convenzione Europea dei Diritti Umani, questa pure stabilisce che ogni essere umano gode del diritto alla vita, ma non fa riferimento ai fattori temporali. La Corte europea, quando è investita su casi di nascituri, si è espressa in modo ambiguo. Quello che c’è da dire, è che la corte europea ha un orientamento che va sia nel senso di non negare i diritti del nascituro, che, in ogni caso, nella tutela dei diritti della madre. La Corte europea non vuole escludere che il feto possa escludere del diritto alla vita, ma pone prima i diritti di chi è già in vita. In caso, però, di gravidanza sorta da uno stupro, la Corte verificherà nel dettaglio ogni singolo caso e si orienterà così: in questi casi, che non sono casi limite, la corte si rimette alla normativa statale. La Corte europea dei diritti umani lo può fare, perché essa deve applicare la Convenzione. Ma siccome la Convenzione è silente, la corte esamina dunque se ci sono norme comuni ai Paesi parte della convenzione. Ma la Corte ha affermato che non vi è uniformità di vedute e dunque adotta la dottrina del margine di apprezzamento: uno strumento di interpretazione, in base al quale la Corte rimette la questione all’interpretazione di ogni singolo Stato. In virtù di questa dottrina, la Corte evita di imporre la propria visione in materie non esplicate dalla Convenzione e in materie in cui non vi è uniformità tra gli Stati. Questo, però, è anche un modo per tenere viva la Corte e ne stimola la sua attività.

I due diritti e l’ordinamento italiano

Nella Costituzione italiana non è espressamente prevista una disposizione dove è solennemente riconosciuto il diritto alla vita. Ciò è dovuto alla scelta dei nostri Costituenti di non restringere in un testo dei concetti che appartengono all’essenza dei valori supremi su cui si basa la Costituzione stessa. Questo comporta che il diritto alla vita si deve considerare insita nella nostra Carta fondamentale e, in particolare all’art.2, tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione privilegiata. Per quanto riguarda, invece, il “diritto di scegliere”, l’Italia non considera l’eutanasia come pratica legale. L’ordinamento giuridico, infatti, l’assimila all’omicidio volontario (perseguibile dall’art.575 del codice penale). Se c’è invece il consenso del soggetto affetto da malattia, si rientra nella fattispecie prevista dall’art.549, che disciplina l’omicidio del consenziente. Non è previsto nemmeno il suicidio assistito. La conseguenza per questi atti, sono diversi anni di carcere. Solo nel caso in cui una persona sia tenuta in vita artificialmente da macchinari (e riversi in stato vegetativo), è prevista la possibilità che il giudice decida d’interrompere il presidio sanitario. Nel caso in cui l’individuo, in vita, non avrebbe mai acconsentito alla sospensione, non è possibile procedere. La conditio sine qua non, infatti, è sempre e comunque la volontà dell’interessato. Questo caso, ovviamente, non rientra nella definizione di eutanasia. Per meglio regolare quest’ultimo aspetto, il 14 dicembre 2017 è stata approvata in via definitiva la legge “Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari”. Molti la conoscono come “testamento biologico”, e sancisce il diritto della persona a stabilire anticipatamente le sue volontà nel caso in cui si trovi nella posizione di non poterlo fare. Una persona può disporre le Disposizioni anticipate di trattamento (DAT), che consentono di scegliere, quando se ne ha la possibilità, il tipo di assistenza sanitaria cui dare il proprio accordo. Si può chiedere in via generica di non essere rianimati o intubati, e vietare di avviare trattamenti nel caso in cui si vada comunque a versare in uno stato vegetativo o d’incoscienza. Nel caso in cui il medico crede di poter evitare queste situazioni e salvare il paziente, può decidere di disattendere le Disposizioni anticipate di trattamento.

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