La pizzica Salentina è un patrimonio immateriale: l’importanza della cultura popolare per Gramsci

La pizzica è un ballo tradizionale pugliese, più specificamente salentino, ormai divenuto attrazione ludica per i turisti. Ma pochi conoscono le sue origini. Antonio Gramsci (1891/1937) fu probabilmente il primo a stabilire i principi per uno studio moderno del folklore e delle arti popolari.

Le origini della pizzica

La Pizzica è un’espressione artistica che nasce negli ambienti più umili del sud Italia, nonostante le sue origini primordiali, con elevata probabilità, risalgano alla Magna Grecia. Non a caso una zona del Salento, a cui appartengono undici dei novantasei comuni della provincia di Lecce, è denominata Grecìa Salentina, debito al “Griko”, dialetto che ancora oggi viene parlato in tali luoghi. Questo ballo è un racconto di donne che, raccogliendo il grano, a volte venivano morse dalle tarantole. Il veleno le trascinava in uno stato di shock, dal quale riuscivano a recuperarsi solo ballando per ore, fino ad annullare l’effetto della tossina grazie al sudore espulso. In anni di povertà e fatica, il ballo rappresentava una libera espressione di femminilità. Tante sono le letture e i racconti legati a questa danza che ha trovato molte interpretazioni: le più note sono la taranta (viene attuata non solo in Puglia ed è accompagnata da strumenti musicali differenti, in base alla regione in cui viene eseguita) e la tarantella, che ha un ritmo veloce e deve il suo nome all’azione terapeutica che svolge sul morso della tarantola. Mentre la pizzica, tipicamente salentina, era conosciuta nell’antichità come il ballo di corteggiamento fra uomo e donna, il cui elemento caratterizzante è il fazzoletto che viene agitato per la scelta del partner con il quale condividere la magia del momento.

Antonio Gramsci e lo studio del folklore

In pochi luoghi il folklore continua ad avere l’utilità originale con cui sono nati canti e costumi. Uno di questi è il Terzo Mondo, dove sopravvivono ancora i resti di una cultura tradizionale di origine contadina. In alcune nazioni in cui il peso della tradizione è stato abbastanza forte, come il Giappone, il folklore ha perso totalmente il suo senso originario di utilità e sembra un vecchio condannato a morire, o trasformato in un frammento da museo da ricordare nelle visite scolastiche. Tuttavia, un po’ di senso devono avere, a parte quello puramente commerciale, i movimenti artistico-culturali di tutto il mondo che pretendono il riconoscimento delle radici folcloriche dei loro antenati, come una forma di identificazione e distinzione dagli altri popoli del pianeta. Il folklore è diventato una fonte di studio diretto per musicologi e l’ispirazione principale per innumerevoli gruppi e cantanti provenienti da tutto il mondo. Evidentemente c’è una causa di rivelazione culturale, di ricerca di segni d’identità, che giustifica questo interesse e questa influenza. Non è una coincidenza che lo studio del folklore sorga nel momento in cui ha luogo la sua rinascita. La parola stessa ”folklore” fu un’ idea coniata dall’inglese W.J. Thoms e pubblicata per la prima volta nella rivista londinese “The Athenaeum” nel 1846, durante il Romanticismo, movimento letterario e filosofico che rivendica il ritorno alle origini, l’unione fra la gente e la semplicità; la riscoperta delle vecchie culture, gli antichi miti e leggende, i canti del passato, come modo per recuperare l’ideale di “buon primitivo”, in una quintessenza di valori che erano considerati scomparsi per sempre. Alla nascita del concetto di “folklore” c’è già una contraddizione che continuerà ad essere proiettata su di esso fino ai giorni nostri, in cui si sente il bisogno di impegnarsi in ogni Paese, in ogni regione, per recuperare la propria identità di fronte alla forza omogeneizzante delle culture dei  Paesi dominanti, in particolare l’anglosassone, quasi interamente posseduto dai media del mondo occidentale e dalla sua industria culturale. È una ripresa che si muove tra il desiderio di libertà e ribellione, un sentimento di protesta e rivoluzione che è misto, difficile da rilevare, in una corrente conservatrice e utopistica che riporta al paradiso perduto dei nostri antenati. Forse è questo che rende il dibattito su questi temi così difficile, che ha impedito negli anni la razionalizzazione dello studio del folklore, la conversione non ad una semplice testimonianza del passato, ad un’arte morta da conservare nei libri, ma piuttosto ad una forma di conoscenza del passato per vivere al meglio il presente e proiettarsi verso il futuro, obiettivo che tutta la scienza deve soddisfare. L’asse speculativa che Antonio Gramsci stabilisce verte su ciò che distingue la canzone popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, che non è il fatto artistico o l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto con la società ufficiale. In questo deve essere scorto il carattere collettivo della canzone popolare. Da ciò derivano altri criteri d’indagine: le persone non sono una collettività omogenea di formazione intellettuale, ma presentano numerose stratificazioni culturali variamente combinate, che non sempre possono essere accertate nella loro purezza.  L’avanzata della scienza e della tecnologia, la parziale eliminazione dell’ignoranza e delle superstizioni, hanno reso inutili i valori originali di un settore tematico molto ampio qual è il canto popolare.  Il capitalismo, che ha accelerato prodigiosamente lo sviluppo delle arti “colte”, ha paralizzato, invece, il processo di evoluzione delle arti popolari, racchiudendole all’interno del pittoresco.

Conseguenze delle trasformazioni sociali sulle tradizioni locali

Le conseguenze che le trasformazioni sociali hanno avuto per la sopravvivenza del folklore sono difficili da valutare. Il passaggio da una struttura di tipo rurale, che è esistita soprattutto nelle regioni meridionali d’Italia, fino a buona parte del XX secolo, a una struttura caratterizzata da una sempre più profonda crisi al suo interno, con conseguenti trasformazioni ideologiche e “modi di concepire il mondo e la vita”, ha portato un profondo sovvertimento dei valori tradizionali del folklore e della canzone popolare, svuotandolo di alcune utilità secolari, ma anche di nuove possibili opportunità. Il mantenimento di un tipo di folklore tradizionale in tutta la sua “purezza’’ si perde quando cambia il valore d’uso di certi eventi come La notte della Taranta, trasformata in oggetto di mercato promosso dall’industria culturale generale, che valuta secondo argomenti estranei alla sua radice e al suo “valore d’uso”. La tradizione viene così convertita non solo in frammento da museo, ma anche in merce con la quale viene scambiato un bagaglio che racchiude un patrimonio spirituale, con uno che include un patrimonio monetario. La pizzica esprime sentimenti e stati d’animo, attraverso parole sincere ed espressive, caratterizzate dalla loro concisione e semplicità. La musica ha un potere di coinvolgimento che spesso incita a ballare anche i più timidi e chi, non essendo del posto, non capta il testo, rigorosamente scritto e cantato in dialetto. La pizzica è fusione di musica, canto e danza. È quasi impossibile scindere le tre cose. Un’armonia di passione e seduzione, in grado di suscitare emozioni che vanno dalla tristezza sconfinata alla gioia più estrema.

Carla Stincone

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