Riflessioni sul concetto di giustizia, attraverso “Il processo” di Franz Kafka e la costante ricerca di una misura della stessa, nella volatilità di quello che dovrebbe essere un indiscutibile punto raggiunto dall’umano pensiero, nelle divisioni Aristoteliche della legittimità
Per poter esistere e coesistere l’uomo ha da sempre anteposto alla sua figura determinati valori, assolutamente immutabili e ben definiti, alienando da sé la grandezza di questi, suscitando nelle menti d’ognuno la massima salvaguardia e la massima osservanza degli stessi, e nella moltitudine di queste assolutizzazioni, la più necessaria nonché la più vicina ad un senso unico di dovere, superiore se si vuole a qualunque “legge” d’ordine metafisico,è la “giustizia”. Nelle differenti interpretazioni date al più alto dei valori, la giustizia vive la sua assolutizzazione in modo assai distorto, ponendosi come valore “immortale” in un mondo decisamente “mortale”, come fine puro costretto ad esser eseguito da mani impure. Nell’incompatibilità tra l’assoluto ed il condizionato il valore della giustizia, impuntato su una forte stabilità etica dettata dai suoi tempi, il senso della stessa muta in base al senso che l’uomo percorre nel suo excursus vitae, ma come qualunque costrutto ideologico è stata più volta vittima d’inciampi, e difficilmente tale “ingiustizia” nella giustizia è stata meglio esposta da quanto fatto da Franz Kafka, il quale capolavoro assoluto, “Der Process”, si propone a noi come propugnacolo di quanto ci interessa trattare.
Il processo
“Der process” è un romanzo incompiuto e pubblicato postumo, di Franz Kafka, da parte dell’amico Max Brod, il quale, fortunatamente, non rispettò il volere dello scrittore di dare fuoco al manoscritto, ritenendolo il suo lavoro preminente, con le dovute modifiche necessarie a compensare quello che era un lavoro non terminato. Elaborato attraverso una corrente criptica e quasi onirica, lo scritto racconta la storia di Joseph K., un uomo arrestato per motivi che non vengono specificati né allo stesso e né al lettore, e perseguito da una remota, inaccessibile autorità. Punto fondamentale del romanzo è la passiva accettazione, da parte dei personaggi esterni alla vicenda, dell’ineluttabilità di una giustizia che funziona come un fenomeno fisico, che nulla ha a che vedere con l’assolutizzazione precedentemente trattata, con sue logiche autoreferenziali e insondabili, che difficilmente trovano un riscontro razionale o effettivamente attuabile. L’intero processo sarà caratterizzato da una forte opacità nei modi e nelle accuse, opacità che il protagonista riscontrerà anche nella difesa del suo avvocato, dovendo di fatti rinunciarvici, giungendo dunque inevitabilmente alla sua condanna, la quale consisterà nella sua esecuzione all’interno di una cava. La conseguenza della frammentazione della realtà in un senso razionale morale, ed in un altro irrazionale esecutivo, è la scissione dell’io del protagonista, che potremmo definire rappresentativo dell’intero genere di cui è parte, il quale è costretto alla accettazione, priva di alcun passaggio logico, della sentenza a lui riservata. Da questo punto di vista il mondo che circonda Joseph è bipartito in una condizione che condivide il senso pratico della giustizia, ma non quello logico individuale della applicazione della stessa, rimanendo incomprensibile al soggetto, ma al contempo non opinabile nel suo essere giustizia. Nel capolavoro Kafkiano possiamo facilmente intuire che, in questa sede, la giustizia si presenta come mera esecutrice dei suoi mezzi, ma del tutto non finalizzata ad un riscontro “equo”, quasi tralasciando il motivo della presenza all’interno della società.
Díkē attraverso Aristotele
Come per la grande maggioranza dei capisaldi del pensiero umano, il primo approccio ad una definizione coerente e verosimile di “giustizia”, avviene in Grecia, ponendo in auge le riflessioni di uno dei padri della filosofia antica e moderna, Aristotele, nella quale analisi saremo però costretti ad affiancare dei momenti più riflessivi ed introspettivi della realizzazione in terra del volere di Díkē, sicchè la definizione del padre del Peripato risulta al giorno d’oggi, o quantomeno nella sede che stiamo affrontando, d’impronta certamente sociale, ma al contempo irrealizzabile nelle forme che presumono una perfezione “morale” di colore che dovranno praticarla, essendo secondo il pensatore dell’odierna Olympiada una virtù etica e conseguenzialmente caratteriale. Nell’etica Nicomachea Aristotele discute della giustizia, ponendola come la più importante delle virtù etiche, essendo essa conseguenza dal’osservanza delle leggi Statali. Parimenti a quelle che sono le altre virtù etiche, la giustizia implica il corretto equilibrio tra eccesso e difetto, stabilendo una proporzione tra i membri della società, e definendone così il primo carattere “geometrico”, e con la successiva divisione in due aspetti dell’argomento in questione, la “giustizia distributiva” la quale consiste nel “dare a ciascuno ciò che gli spetta”, in base alla proporzione, e la “giustizia commutativa”, la quale fa perno sul concetto di uguaglianza tra individui, nella misura in cui tende a riparare i danni subiti, indipendentemente dalle differenze tra gli stessi individui. Nella sua perfetta esposizione e nella suo inattaccabile valore logico, tale definizione di “giustizia”, risulta però scarna, e potremmo addirittura definirla decontestualizzata da un valore pratico, e non etico, che possa rappresentare un bisogno di giuridicità da parte dei consociati di una detta società. Nella sua matrice ideologica c’è il forte bisogno che la “giustizia” sia capace sì di mantenere un’altezza morale, ma anche una detta praticità, manifestandosi dunque, come già detto, nella messa in pratica d’un valore, seppur umano, molto lontano dall’attuabilità etica in tutte le sue parti, ponendo in questione il perché affinché ad un individuo sia fatta giustizia, è necessario che ad un altro sia fatta ingiustizia, ma intendo spiegarmi meglio.
Nella volatilità della giustizia
Il concetto della giustizia è il risultato di elementi empirici e razionali unificati dall’attività formale e sintetica della coscienza, gli esseri devono coesistere tra loro secondo una legge universale di ragione attuata in modo coattivo. Alla concezione aristotelica naturalistica della giustizia come eguaglianza, si contrappone il concetto di giustizia come libertà, di cui l’eguaglianza è il limite soggettivo, e la necessaria messa in pratica del sistema legislativo è il limite oggettivo. Ben lontano dal concetto di eguaglianza, equità, il concetto di giustizia è sempre più frequentemente collegato alla riparazione di un torto subito, la necessaria punizione ad un crimine commesso. Nella sua aristotelica presenza naturalistica e sociale, il senso ultimo della giustizia diventa non più quello di equilibrare una condotta morale ed un senso comune alla quale si possa aderire nella speranza che ogni consociato abbia la stessa intenzione di bene comune, bensì la capacità individuale di sfruttare quello che è ormai divenuto mezzo di indissolubile vittoria d’uno su un altro. Dal fondo del suo pragmatismo e della sua complessità, la giustizia è ormai in noi impressa come la possibilità di pensare al proprio utile in modo lecito, essendo questa alienata come valore assoluto d’alta moralità, e facendoci scudo della legge stessa nel commettere le nostre iniquità, nel suo sistema, che rende possibile grazie ad una buona conoscenza dello stesso l’evasione dagli obblighi morali che ci riconducono a quel tanto amato concetto di equità. La legge diventa così il mezzo tramite la quale colui ,che meglio può sfruttarne i contenuti, può prevaricare, impunito, siccome si muove nei parametri da noi stessi assolutizzati, sull’altro. Nelle antiche inquietudini la giustizia dapprima si presentò come la paura da parte dei deboli per i forti, che tentarono appunto di limitarli tramite un sistema legislativo, e poi, nella presa di coscienza che la condizione umana verteva in senso antitetico, si giunge finalmente all’idea che la giustizia sia sempre stata l’utile del più forte. Nell’umana misura dei valori da noi creati, e a noi appartenenti, la giustizia nulla ha a che vedere con la legge, con la legalità, nella sua forma che agisce sopra il volere dell’uomo, costringendolo durante la vita, per impulso di bene, a riparare agli errori commessi, nell’intuizione che la giustizia non sia un valore da sistematizzare in un concetto di legalità, ma che sia quel valore primo che impone ad ognuno d’agire secondo bene, nell’equitá, storica e sociale ormai raggiunta, nel nome della stessa, e per via della stessa.