Una serie televisiva per denunciare i guasti della società capitalista attraverso la figura dell’eroe, da essa corrotto fino alla follia e trasformato nel suo peggior antagonista
“Quis custodiet ipsos custodes?”
E’ il poeta latino Giovenale a fornire una massima che il fumettista britannico Alan Moore avrebbe fatto propria in Watchmen, celeberrima ucronia a stelle e strisce che sfrutta la figura del supereroe come capro espiatorio per esaltare la decadenza della società statunitense in epoca di Guerra Fredda. Spossessando i suoi eroi – fatta salva un’eccezione – dei loro poteri, esaltandone le meschinità più tristemente umane e invischiandoli negli scandali geopolitici più contraddittori della loro epoca – dalla Guerra del Vietnam all’assassinio di JFK – Moore assimila dalla lezione dei latini come gli aforismi così anche la più pagana delle tradizioni: l’antropomorfizzazione della divinità. Un’operazione che avrebbe riscosso un tale successo, da spingere Zack Snyder a trarne una versione filmica di qualità nel 2009, ravvivata dalla messa in onda – proprio nelle ultime settimane – della serie televisiva ambientata trent’anni dopo i fatti di Watchmen e ideata da Damon Lindelof. Ma se i prodotti collaterali ispirati dal capolavoro di Moore sembrano lanciare il sasso e nascondere la mano, lasciando senza risposta una domanda che forse Giovenale intendeva in senso retorico, altri si sono fatti avanti di recente per sbrigliare la questione: una serie il cui titolo risponde puntualmente all’interrogativo di Moore – “Chi sorveglia i sorveglianti?” – pur rimodellandolo con una parafrasi piuttosto colorita. Chi sculaccia i supereroi?
The boys are alright
Soffia un vento palustre nel quadro recente dell’on-demand. Una stagnazione nei contenuti delle piattaforme che sembra colpire su tutte, dopo un’ascesa vertiginosa, le serie televisive targate Netflix. Le tematiche si somigliano, le trame risultano ridondanti, e il ritorno all’ovile di vecchi titoli fortunati con nuove stagioni finisce per trasformarsi in un accanimento terapeutico che ne impoverisce l’originalità. Ma la crisi di qualcuno si trasforma nella fortuna di qualcun altro, con Prime Video – il servizio di streaming a pagamento fornito da Amazon – che sembra deciso a cavalcare l’onda con diverse serie originali prodotte da Amazon Studios, che siano esse destinate al grande pubblico o pensate per dar sfogo a un Cinema d’Autore che sembra faticare – a giudicare dal recente Caso Marvel/Scorsese – a trovare nelle produzioni hollywoodiane un porto sicuro del mecenatismo. Titoli di qualità come Jack Ryan e The Man In The High Castle si sono rivelati delle scommesse riuscite, ma anche un gigante silenzioso come Nicolas Winding Refn – già regista di Drive (2011) e The Neon Demon (2016) – ha visto prodotta la sua sgargiante eppur snobbatissima Too Old To Die Young. Ma il colpo grosso è arrivato il 26 Luglio di quest’anno con l’uscita in otto puntate della prima stagione di The Boys, serie tv ideata da Eric Kripke e basata sull’omonimo fumetto DC Comics realizzato da Garth Ennis e Darick Robertson: replica irriverente a un quesito già posto a quel lucidissimo quanto cinico Comico di Watchmen che con il celebre ‘supereroe’ di The Boys sembra condividere costume e costumi. “Che cosa è successo al Sogno Americano? Che si è avverato! Lo stiamo ammirando”.

Il sogno tutto americano di vedere capitalizzata, quasi si trattasse di un pacchetto azionario, la figura del supereroe. A guida di questo progetto troviamo la Vought American, una multinazionale senza scrupoli che sfrutta i super per creare un giro d’affari miliardario mettendone in vendita i poteri e i servigi al miglior offerente, nonché rendendoli protagonisti di un merchandising omnicomprensivo che fra film d’intrattenimento e sponsorizzazioni pubblicitarie, abbraccia l’intera società statunitense. Ma gli interessi della Vought sono anche più oscuri, intenzionata com’è a far approvare dal Congresso l’inserimento dei super nella catena di comando militare, con l’obiettivo finale di trasformarsi in un governo ombra che si sostituisca progressivamente a quello federale. Al vertice della razza dei supereroi – molti dei quali vivono in povertà e anonimato, nella costante ricerca di farsi assoldare dalla Vought – siedono ‘I Sette’, un gruppo scelto di eroi che fondamentalmente interpretano i ruoli di ambasciatori della multinazionale, di fatto abdicando alla loro funzione di vigilanti. A fungere da cuscinetto contro i super, “sculacciandoli quando oltrepassano il limite”, rimangono solo Billy Butcher e i suoi ‘Boys’, un gruppo di derelitti e residuati della CIA con l’arduo compito – facilitato nel fumetto dall’assunzione del Composto V che dona i poteri agli eroi – di combattere i soprusi della Vought. Ma i loro metodi, come lascia intuire il cognome del loro stesso leader – Il Macellaio – sono anche più brutali di quelli della multinazionale, aggravati ulteriormente dal coinvolgimento emotivo di Butcher che accusa la punta di diamante dei ‘Sette’, Patriota, di essere il responsabile dello stupro e dell’assassinio della moglie, mai ritrovata.
Conformismo da anticonformisti
Un episodio pilota dal finale esplosivo, sulle note dell’azzeccatissima e sempre godibile The Passenger (1977) di Iggy Pop. Una colonna sonora datata che non si smentisce, implementata a ogni nuova puntata da capisaldi del panorama musicale che meriterebbero di essere citati tutti, nessuno escluso: da Ain’t No Sunshine (1971) di Bill Withers a Cherry Bomb (1976) dei Runaways e London Calling (1979) dei Clash, fino ad arrivare a Baby Did A Bad Bad Thing (1995) di Chris Isaak – per accompagnare una citazione orgiastica che, a giudicare dalla canzone, sembra proprio voler richiamare Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick. Un’ambientazione che soddisfi l’esigenza anticonformista, per non dire cattolica, del fruitore di cinecomic più annoiato, di vedere gli ultimi diventare primi e i primi ultimi – dal Deadpool (2016) di Tim Miller al recentissimo Joker (2019) di Todd Philips, per arrivare al Suicide Squad (2016) di David Ayer che, pur deludendo, si era già posto la fatidica domanda: “Se Superman decidesse di planare giù, scoperchiare la casa bianca e portarsi via il Presidente dallo studio ovale, chi lo fermerebbe?”. Questi sono solo alcuni degli elementi che hanno permesso a The Boys di riscuotere un notevole successo di pubblico, scatenato da un pilota che sembra voler promettere fin da subito un provocatorio ribaltamento di tutti i più puri canoni dell’intrattenimento seriale: un afroamericano a vestire i panni dell’uomo più veloce del mondo, quasi a voler dare ragione al Goebbels di Quentin Tarantino che in Bastardi senza gloria (2009) diceva: “Solo i discendenti degli schiavi permettono all’America di essere competitiva nell’atletica. L’oro olimpico americano può misurarsi col sudore del negro [risate]; un viscido e squamato Chace Crawford che, spogliato di quella sua aura da bravo ragazzo che l’aveva reso famoso in Gossip Girl, costringe le colleghe a elargirgli pompini sotto ricatto; per concludere con il doppelgänger traviato di Captain America, Patriota, che con il celebre paladino Marvel sembra giocare al Dr. Jekyll e Mr. Hyde.

Tanti punti messi a segno per The Boys insomma, meno l’unico davvero importante: non conquistare la fama, quanto conservarla. Dopo appena quattro puntate, la serie sembra accasciarsi, perdendo di smalto. Gli eventi, inizialmente destinati a precipitare nel giro di poco, si paralizzano. I Boys non sculacciano più – anche se le malefatte abbondano – quasi sonnecchiando sulla prima lavata di capo al più inutile dei Sette. Un procedere che, volendo arrampicarsi sugli specchi, trova forse una spiegazione nella stessa natura critica della serie, che rinuncia a soddisfare quella fame serialconsumistica del ‘tutti, maledetti e subito’ e si prende il suo tempo. La stessa critica alla società dei consumi e del capitale che potrebbe dar ragione di un finale di stagione completamente stonato rispetto al resto della serie: uno scenario che fra case nella prateria, stelle e strisce che sventolano nei patii, sonore pacche sulle spalle intervallate a ‘figliuolo’, rende Billy Butcher l’unico elemento davvero fuori posto. E tuttavia il tentativo di salvare la serie adducendo infinite ragioni sulla sua natura polemica rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio, non sfuggendo a un paradosso insito al legame fra mondo dello spettacolo e società capitalista, che se pure dipende dalla seconda finisce per inficiare anche il primo.

Nella fattispecie, The Boys ha le fattezze di una polemica a matrioska, poiché non si limita a decostruire la figura del supereroe, ma ne ridicolizza anche il merchandising, su tutto le saghe cinematografiche multimiliardarie come Marvel e DC Comics – non si dimentichi che proprio di recente la prima ha messo a segno il film con più incassi nella Storia del Cinema. E’ soprattutto grazie a questo approccio anticonvenzionale che la serie ha riscosso un tale successo. Eppure il prodotto di Casa Prime, lungi dal far gola al solo pubblico da controcultura, è esso stesso un esempio di merchandising cinematografico multimiliardario alla stregua di Marvel e DC. Ha fruttato milioni di dollari alle tasche di Amazon – azienda che, fra le altre cose, è nota alle cronache per lo sfruttamento dei suoi dipendenti – mentre “il ruolo dei sovversivi è interpretato da attori pagati più di mille operai. […] E’ forte la sensazione di trovarsi di fronte a una fase nuova, estrema, nel processo di dispiegamento dello spirito capitalista. Il potere sembra aver compiuto un ultimo, decisivo passo in avanti nel suo percorso di metamorfosi, facendosi carico in prima persona della produzione di messaggi e ideologie apertamente ostili o eretiche. […] La protesta attrae, fa guadagnare: […] il trionfo del capitalismo si rivela nella sua capacità di trasformare in profitto anche le storie e i movimenti che si dichiarano fieramente contrari al culto del guadagno, azzerandone di fatto la capacità di veicolare significati differenti da quelli imposti dal sistema. […] Nel passato, quando l’eresia diventava ostile e perturbante, le forze al potere erano costrette a mettersi in gioco, in questo modo rivelandosi e assicurando all’eresia la dignità riconosciuta a una minaccia effettiva. (Dal saggio breve L’eresia diventata merce: la lotta di classe nella società dello spettacolo del Prof. Niccolò Argentieri).
Alienazione e religione
Il capitalismo, nella sua ultima versione, sembra dunque aver assorbito la lezione di Oscar Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray: “Al mondo c’è una sola cosa peggiore dell’essere chiacchierati, ed è il non essere chiacchierati”. Per alimentarsi, il nemico giurato di Karl Marx non si preoccupa più che si parli bene di lui, ma che se ne parli – e The Boys assolve suo malgrado questo compito. Tuttavia, altrettanto involontariamente e in modo forse non gradito al filosofo tedesco, la serie e i suoi supereroi condividono non poche delle istanze riportate nei suoi scritti. Già l’introduzione al trattato Per la critica della filosofia del diritto di Hegel del 1843 – nella quale Marx coniava la famosa definizione di religione come “oppio dei popoli” – trova spazio nella figura melliflua di Ezechiele, cui viene affidata una profana cura d’anime che intontisca la popolazione, imbrigliandone le coscienze ai dettami spirituali usati dalla Vought per legittimare la natura divina dei suoi ‘eroi’ – in maniera non dissimile a quanto fatto dai sovrani medievali per giustificare l’inviolabilità dell’autorità regale con l’argomento del superiorem non recognoscens. Ma è il discorso sull’alienazione dell’operaio rispetto alla società capitalista, portato avanti da Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, a colpire maggiormente il rapporto di sudditanza dei super nei confronti della Vought. Può forse suonare stonato – una volta data per scontata l’identificazione della multinazionale col fronte borghese – affidare il ruolo del proletario a un qualunque membro dei Sette piuttoste che dei Boys, unici fautori della rivoluzione in atto. Ma solo se non si approfondisce appieno il discorso marxista.

Marx distingue quattro aspetti fondamentali del fenomeno dell’alienazione dell’operaio:
- L’operaio è alienato rispetto al prodotto della sua attività, in quando produce un oggetto che non gli appartiene e che anzi va ad arricchire e rafforzare la potenza dominatrice che ne sfrutta la forza lavoro. Così i super, lavorando per la Vought, ricevono al massimo un misero 4% del suo fatturato – questo il caso limite di Patriota – arricchendo i vertici della multinazionale e rafforzandoli.
- L’operaio è alienato rispetto alla sua stessa attività, poiché la mette al servizio del capitalista per finalità che gli sono spesso estranee. Questo, dice Marx, lo fa sentire ‘bestia’ quando, lavorando per fini sociali, dovrebbe sentirsi uomo – come i super che, al servizio di una multinazionale che dovrebbe teoricamente forgiare eroi, si sentono invece di star tradendo questa funzione – e lo fa sentire uomo quando si comporta come una ‘bestia’, stordendosi con alcool e fornicazione – pratiche che per i Sette diventano uniche valvole di sfogo.
- L’operaio è alienato rispetto alla propria stessa essenza, poiché invece di assecondarla con un lavoro libero e creativo che lo distingue dagli animali, viene forzato a un mestiere manuale e ripetitivo – come i super che, abdicando al loro ruolo eccezionale di eroi si trasformano in fenomeni da baraccone al servizio del capitale.
- Cosa più determinante, l’operaio è alienato rispetto al suo prossimo, cioè rispetto a ogni altro individuo che lo circonda, perché riconosce in ognuno il capitalista o il tassello di una società capitalista che lo sfrutta e lo rende schiavo. Il suo rapporto di conflittualità si estende dunque dal singolo capitalista all’umanità tutta – ed ecco spiegato il comportamento antisociale degli eroi.
Nella serie dunque si assiste a una vera e propria ribellione del proletario/supereroe, coronata – discostandosi dagli avvenimenti del fumetto – dall’uccisione da parte di Patriota dei vertici della Vought. Una figura talmente sociopatica da far pensare che qui il concetto di alienazione venga portato alle estreme conseguenze, sganciandosi dal suo significato puramente filosofico e avvicinandosi a quello psichiatrico: l’alienato non è più semplicemente dissociato rispetto alla sua società, ma rispetto alla sua stessa mente. Alla seconda stagione l’arduo compito di scegliere fra le due vie possibili: l’insperata rottura del giogo capitalista da parte dei suoi stessi schiavi o la loro irreversibile discesa lungo una spirale di sociopatia e delirio.