Il mercato culturale: è giusto vendere opere d’arte?

L’arte, che sia essa poesia, pittura, scultura e così via, è da sempre una delle forme migliori per sfuggire alla realtà. Schopenhauer la considerava l’unica forma di libertà dalla brama della volontà; Hegel la intendeva come momento fondamentale dell’autocoscienza dello spirito e così via. Sta di fatto che l’arte ci permette di dar forma a dei pensieri che non riusciremmo altrimenti ad esprimere razionalmente. Possiamo infatti parlare di arte quando vi è un “compositore” che produce un ente artistico, sottoposto alla visione di un pubblico più o meno vasto. Il processo artistico è molto complicato. Secondo il filosofo tedesco Franz Rosenzweig, l’artista pone il suo significato esistenziale nell’opera d’arte che, nel momento in cui verrà in contatto con lo spettatore, si sommerà al significato di quest’ultimo. Vi è infatti una fusione di orizzonti tra l’artista e lo spettatore, mediante l’opera stessa. Ogni spettatore produrrà un significato diverso rispetto ad un altro: è sicuramente questa la peculiarità principale dell’opera artistica.

La mercificazione dell’arte

Ma è giusto produrre e vendere opere d’arte? Nella storia della filosofia ci sono sicuramente state risposte differenti. Cominciamo con il considerare una prospettiva sfavorevole: quella di Hans-Georg Gadamer. Gadamer è un filosofo contemporaneo che in Verità e Metodo (1960), dedica l’intera prima parte dell’opera all’arte. Gadamer è convinto del fatto che ogni opera d’arte sia verità, e che abbia statuto ontologico proprio: propria essenza e proprio scopo. Infatti, l’opera d’arte trascende lo spettatore e l’artista, configurandosi come cosa in sé. In questa visione la mercificazione dell’arte appare inaccettabile, riduttiva e dispregiativa nei confronti della stessa. Le merci sono prodotti che non hanno statuto ontologico proprio e che non portano con sé delle verità. Nella merce vale la legge dell’utile mentre nell’arte quella del significato. Per Gadamer è impossibile trattare l’opera d’arte come una banalissima merce.

Hans-Georg Gadamer

Il lavoro dell’artista

Ma se è vero che l’arte non può essere trattata come banalissima merce, è anche vero che Gadamer si sbagliava sul restante orizzonte. Immaginiamo di essere artisti ma di non poter vendere la nostra arte. Ovviamente, dobbiamo trovarci un altro lavoro, magari uno che non ci occupi troppo tempo rispetto alla produzione artistica. Nella migliore delle ipotesi dalle 6 alle 8 ore al giorno saranno impiegate a lavorare. Il tempo da poter dedicare all’arte sarà ridotto, senza considerare la stanchezza di dover produrre dopo una giornata di lavoro! Ecco, immaginare l’artista come un non-professionista e come un Santo vegliardo è l’errore principale in cui ci si imbatte di continuo. Lo stereotipo dell’artista a cui non interessano i soldi e che chiede l’elemosina per strada è da abbandonare tanto quanto lo stereotipo della mercificazione dell’arte di Gadamer. Se l’artista riesce ad offrire un prodotto artistico o un servizio al pubblico, non vedo perché non possa farsi dare del denaro in cambio. La produzione di un’opera d’arte costa tempo, sacrificio, fatica. Questo valore aggiunto deve essere considerato nel momento in cui il pubblico usufruisce dell’opera d’arte. Ovviamente, la linea guida dell’artista dovrà essere sempre quella della passione per ciò che fa, altrimenti l’arte può davvero diventare una merce vuota di significato. La passione per il proprio lavoro e la passione per l’arte in generale, spronano l’artista a fare sempre meglio ed a sentirsi se stesso. In ogni opera d’arte c’è parte dell’artista e l’artista permette al pubblico di conoscere parte di sé.

Giacomo Di Persio

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