La canzone “A un vincitore nel pallone” contenuta nei Canti di Giacomo Leopardi, insieme al film di Clint Eastwood chiarisce che ci sono valori che vanno oltre al semplice agone sportivo.

Ci sono tantissimi esempi di sport e di sportivi che hanno assunto un significato che trascende e va oltre la semplice gara: basta pensare al messaggio fondamentale che è scaturito dall’impresa di Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino 1936 per capire che, dietro ad un atleta, spesso c’è molto di più. Ci sono idee, talvolta ideologie, ci sono problematiche sociali, questioni mai risolte o ambizioni civili. Due menti straordinarie come quelle di Nelson Mandela e, a suo modo, di Leopardi lo avevano capito bene.

Una squadra, una nazione
Il pluripremiato film di Clint Eastwood esce nelle sale il 26 febbraio del 2010, quasi precisamente dieci anni fa, portando alla ribalta una storia impressionante che scava a fondo nel problema dei problemi per la Repubblica Sudafricana: l’apartheid. Siamo nel 1994, si sono appena tenute le prime elezioni libere dopo l’abolizione legale dell’apartheid (risalente al 1992) e Nelson Mandela vince, divenendo così il primo presidente nero della storia di questo Stato. Nonostante la disuguaglianza tra bianchi e neri non sia più sancita dalla legge, nella percezione dei cittadini sudafricani le differenze razziali esistono ancora e questo conduce a tensioni sociali difficili da sanare. I bianchi sono ancora i detentori di gran parte delle ricchezze e dei ruoli dirigenziali più importanti, ma loro sono anche in netta minoranza e la moltitudine di neri adesso preme per avere una parità su tutti i fronti che i primi non vogliono concedere loro. Mandela è alle prese con una situazione delicatissima e senza vie d’uscita apparentemente rintracciabili. Ma nei momenti di difficoltà i fuoriclasse trovano sempre un modo per venirne a capo. Così il neopresidente della Repubblica progetta di sfruttare una particolare arma per cercare di placare le tensioni sociali e di plasmare, allo stesso tempo, un’identità nazionale fino a quel momento troppo frammentata: la nazionale di rugby. Infatti l’anno successivo all’elezione di Mandela, nel 1995, si terranno i Campionati mondiali di Rugby e avranno luogo proprio in Sudafrica: pertanto, se la selezione nazionale riuscisse a vincere, nella propria terra, questo prestigioso riconoscimento, darebbe un contributo fortissimo (anche a livello di visibilità internazionale) alla creazione di un sentimento collettivo di appartenenza ad una sola nazione, salda e fraterna. Per questo si rivolge al capitano della squadra, il fuoriclasse Francois Pienaar, affinché i giocatori della nazionale si convincano a sposare quello che, a tutti gli effetti, è il progetto più delicato e ambizioso del nuovo Sudafrica. Pienaar si dimostra d’accordo fin dall’inizio, ma sorge subito un problema: la squadra è composta da soli giocatori bianchi, anche perché il rugby è considerato uno sport che le persone di colore non possono praticare. Ma il carisma quasi simbolico che possiede la nazionale può diventare lo stesso un cemento perfetto per rafforzare, anzi creare, legami tra due classi sociali in guerra.

Perciò i giocatori vanno ad allenarsi per le strade e nelle piazze, giocano con bambini di colore e con i bianchi, anche nello stesso momento. Con loro c’è anche un giocatore di colore, che è quasi più acclamato del capitano pur essendo una riserva. E soprattutto adottano un motto di un’efficacia disarmante: “Una squadra, una nazione”. Raccolgono adesioni, consensi, sorrisi: l’esperimento sta riuscendo e la maggior parte dei sudafricani inizia ad identificarsi in quei giocatori vestiti di verde e giallo che, però, puntano a diventare la Rainbow nation, la “Nazione arcobaleno“, dove ci sono tutti i colori insieme e nessuno di loro è più importante degli altri. Così la nazionale, chiamata con il nome di Springboks, mantiene i colori sociali che aveva in precedenza, ma stavolta ha il completo sostegno di un intero popolo, unito sotto l’effige della squadra. E, con il sostegno di tutta la nazione, i giocatori riescono nell’impresa di sconfiggere i temuti All Blacks neozelandesi in finale e regalare così al Sudafrica un importante titolo casalingo. Anche se, in realtà, ciò che hanno realmente regalato ai sudafricani vale molto, molto di più.

“La sudata virtude… magnanimo campion”
Forse pochi conoscono questa componente “sportiva” di uno degli uomini di cultura più importanti del nostro panorama letterario. Lui che ha sacrificato la sua salute fisica per dedicarsi allo Studio matto e disperatissimo, lui che ha consacrato la sua vita a tutt’altro che l’attività sportiva, in realtà nutriva una poco nota ammirazione per gli agoni di questo genere. Innanzitutto perché, in virtù della sua sterminata erudizione, era ben a conoscenza dell’importanza e del valore delle attività fisiche e delle gare sportive nell’antichità greca e latina: il culto del bel corpo temprato, i Giochi Olimpici, i Giochi Nemei, i Giochi Pitici e tutte le altre manifestazioni possedevano un significato più profondo della gara in sé. Una vittoria poteva portare lustro ad una città intera o al suo signore (celebri le vittorie di Ierone di Siracusa ad esempio, lodate da Pindaro e Bacchilide nelle loro meliche) e, nel periodo delle gare sportive, si viveva un periodo di pace, senza guerre. I conflitti, per poco tempo, erano riversati tutti sul terreno della sfida, sia che fosse il lancio del disco o la corsa con il carro. I combattenti erano gli atleti. Leopardi era ben consapevole di questo ed ebbe modo di esprimere la sua ampia cultura classica in una bellissima canzone scritta in occasione di un momento contingente: una partita di Palla col bracciale, gioco molto in voga ai tempi di Leopardi, a cui il conte potè assistere dal vivo nel 1821. So che è difficile immaginare Leopardi allo stadio a tifare e a cantare cori insieme ad una folla in visibilio, ma anche lui, calato nelle spoglie di un uomo del suo tempo, era tra coloro che poterono ammirare le gesta di Carlo Didimi. Costui era un suo coetaneo (il che rende ancora più calzante il paragone che Giacomo farà tra la sua persona e quella dell’atleta) che rappresentava un vero e proprio fuoriclasse del gioco della palla, il Vincitore nel pallone a cui è dedicata questa canzone. Da questa figura Leopardi prese spunto per rievocare le gesta degli antichi che avevano luogo non solo nel campo sportivo ma anche in quello bellico: un’intera strofa è dedicata alla battaglia di Maratona, con cui gli Ateniesi scacciarono i Medi dalla loro terra. L’attitudine all’attività fisica, all’azione, alla partecipazione attiva alle vicende della propria città rintracciabili nello sportivo e nel cittadino del mondo classico era ciò che Giacomo rimpiangeva e che mancava nella sua epoca così languida, caratterizzata da una corruzione dei costumi che rendeva passivi gli individui. Si doleva nel constatare quanto la gloria della penisola italica e della sua gente ormai fosse sopita e in declino; in nessuno era riscontrabile la forza di riscattarla. Non c’era l’indole combattiva di riprendere in mano le sorti collettive e di impedire che le “città latine” e le “italiche moli” venissero oltraggiate dal tempo, dal nemico straniero e dagli armenti ignari di ciò che calpestano. L’unica parvenza (e illusione) di vigore capace di scrollare via questa remissività dalle spalle degli italici era data dalla gara sportiva, che “Disserra e scote della virtù nativa le riposte faville”.

Il riscatto e la gloria personale
Il favore popolare consegnerà alla gloria il Vincitore nel pallone, che è in grado di suscitare, nei cuori di chi assiste alle sue gesta, emozioni sopite risalenti all’arcano valore che è stato soffocato dal sopraggiungere di nuovi tempi e di una nuova epoca. Un’epoca di cui faceva parte Leopardi, il quale si rammaricava della sua condizione e avrebbe voluto tanto essere come il Didimi, eccellere nello sport creatore di illusioni. Certo perché il ruolo dell’atleta è quello di rievocare una fiacca energia spirituale addormentata che possa instillare nelle persone l’ardente desiderio di lotta per il riscatto civile della propria epoca. Ma questa, conclude il poeta, è solo una vana e mera illusione. Ormai la fiamma della virtù è praticamente spenta e non la si può riaccendere, soltanto si può cercare di tenerla ancora un pochino in vita con esempi di gloria sportiva. Una “lieta illusione”, come illusori sono i momenti che ci procurano la felicità: ci ingannano, è vero, ma ne abbiamo bisogno e fa male essere consapevoli, come Leopardi, del fatto che tutto è vano. Essere dotati di ragione è ciò che impedisce di coltivare a fondo la vocazione sportiva, quell’illusoria pratica che consacra alla grandezza imperitura il fuoriclasse che trionfa. Infondo è per questo che Leopardi invidia Didimi e traccia un paragone tra loro due che quest’ultimo stravince: l’atleta ha fatto sue le virtù degli agoni antichi e lotta attivamente e fisicamente per la gloria personale che è in grado di raggiungere se eccelle, cosa che non riuscirà mai ad un uomo dotato di ragione perché incapace di abbandonarsi alle illusioni. E infatti, anche nelle arti e in poesia, per eccellere bisogna lasciarsi andare alle suggestioni illusorie. Questo riesce perfettamente al Didimi che, vincendo ogni incontro, costruisce la sua immagine gloriosa, che rimarrà immortale tramite le suggestioni che è in grado di creare nella gente che lo acclama o, ancora di più, lo venera. Perché egli riesce a fare colpo nei sentimenti delle persone, regala loro emozioni e ispira effimere ambizioni di gloria, che mai verranno tramutate in una lotta civile contro la decadenza, ma che comunque alleggeriscono il fardello della vita.

E forse non è questo che hanno fatto gli Springboks vincendo il mondiale? non hanno suscitato emozioni, fatto breccia nei cuori di tutti i sudafricani indifferentemente? Di fatto i vincitori del titolo sono loro, non hanno regalato niente alla popolazione normale. la gloria personale è di quegli atleti, non dello spettatore comodamente seduto sugli spalti. Eppure quest’ultimo soffre e gioisce con e per loro, si identifica nella loro battaglia all’ultimo punto sul campo. Si tratta dei sentimenti che lo sport e lo sportivo sono in grado di suscitare in chi assiste ad un evento, sentimenti che possono anche valere più di mille azioni politiche, economiche o diplomatiche. E anche se non riuscissero nel loro intento di stimolare un riscatto sociale o civile come auspicava il poeta di Recanati, tuttavia riescono sempre ad unire mani e voci per cantare all’unisono. Il vero sport non divide ma avvicina. Aveva ragione Leopardi, sono solo lieti inganni: ogni volta che guardiamo una manifestazione sportiva sospendiamo i nostri pensieri quotidiani per tifare o per divertirci, o anche per arrabbiarci perché comunque ci distraiamo. Si tratta infatti di una specie di anestesia della vita di tutti i giorni che, grazie al Vincitore, ci fa assaporare un po’ di gloria passeggera, che non è nostra ma che sentiamo come tale. E queste illusioni creano potenti sentimenti in grado di veicolare efficacemente grandi messaggi.