Il basket in bianco e nero: analizziamo le testimonianze tra divisioni in campo e sociali

Rappresenta davvero la storia della franchigia un esempio da portare non solo nei campi da gioco, ma anche in campo politico?

Le parole del sociologo statunitense Dyson in merito al successo di Stephen Curry rappresentano un duro colpo per la storia della franchigia. La storia della lega più nota della pallacanestro, infatti, rappresenta un esempio storico delle evoluzioni socio-culturali tra neri e bianchi.

NERI PIU BIANCHI DI ALTRI: LE PAROLE DEL PROFESSORE DYSON

Siamo nell’estate del 2016, in pieno clima playoff. La finale che vedrà la prima vittoria dei Cleveland Cavaliers capitanati da LeBron James è ancora da giocare, ma un’altra squadra fu l’indiscussa protagonista di quei playoff, ovvero i Golden State Warriors di un giovane quanto talentuoso Stephen Curry. Diventa in breve tempo il giocatore più popolare non solo della squadra, ma dell’intera lega. Ad aver guardato con scetticismo il suo successo mediatico, è stato però Michael Eric Dyson, un sociologo afroamericano specializzato in questioni razziali della Georgetown University. Secondo quanto scritto nel suo articolo dal titolo The Color Line, la popolarità di Curry non sarebbe da cercare nelle sue doti di cestista, bensì nel fatto che la sua carnagione sia molto chiara. Suo padre Dell Curry, ex giocatore della NBA, e sua madre Sonya, un’ex giocatrice di pallavolo, sono entrambi afroamericani. Lo stesso vale per la sorella Sydel e per il fratello Seth, quest’ultimo guardia per i Brooklyn Nets, che si sono trovati spesso a dover dare una giustificazione al loro essere “neri troppo bianchi”. In poco tempo non solo le vittorie ed i record di Curry furono sulla bocca di tutti, ma anche la sua stessa famiglia, dalla moglie Ayesha fino ai suoi tre figli, trasformando la sua vita in un reality. La tesi di Dyson troverebbe inoltre un ulteriore riscontro visti i sospetti della comunità africana sul fatto che difficilmente un nero potesse essere amato così tanto dai bianchi. Ad esempio, sempre all’interno del suo articolo, riporterebbe come prova le parole di un docente che ammetterebbe che James Harden, cestista statunitense vincitore di due medaglie d’oro ai mondiali di pallacanestro e alle Olimpiadi di Londra, non vincerebbe mai il titolo di MVP poiché “troppo nero”. Sempre nell’articolo, viene riportato un episodio che ha come protagonisti lo stesso Harden, Curry ed il suo storico ex-compagno Kevin Durant. In un convegno, Durant raccontò della prima volta che incontrò Curry, affermando di averlo scambiato per un bianco, in quanto “Da dove vengo io, nel ghetto, non si vedono cose così. Non si vedono tipi con la pelle chiara. Sono tutti come me’‘ suscitando la risata dei presenti. Secondo Dyson, tuttavia, le frasi di Durant rappresentano un diffuso stereotipo tra la comunità afroamericana: i neri con la pelle scura vivono nei ghetti, cioè sono dei veri neri, mentre i neri con la pelle chiara no. Le tesi di Dyson suscitarono clamore quanto consensi, ma si scontrano con la dura realtà dei fatti: la storia della nota franchigia ha a che a fare con dure lotte per i diritti civili, dove gli stessi giocatori sono stati i primi a “scendere in campo”.

Jerry West, la cui sagoma è l’attuale logo dell’NBA.

UN PASSO INDIETRO: IL BASKET IN BIANCO E NERO

Per dare delle ipotesi storiche che potrebbero affermare quanto smentire la tesi di Dyson, bisogna fare qualche passo indietro, tornando agli albori della pallacanestro e di una neonata NBA. Molti ricordano come il basket sia nato grazie alla testimonianza di James Naismith, docente di educazione fisica che inventò il gioco. Ma pochi ricordano che le sue squadre fossero composte solo da giocatori bianchi. La stessa NBA quando venne istituita nel 1946, permise ai giocatori neri di entrare nelle squadre soltanto nel 1950 e, solo ora,  risulta essere la lega con la rappresentanza nera più alta. Ciò venne scaturito dal fatto che, ancor prima che nascesse la lega, fossero pochi i giocatori neri che, una volta finite le superiori, non avessero denaro a sufficienza e che le borse di studio erogate per chi volesse intraprendere una carriera sportiva fossero insufficienti. Harry “Bucky” Lew, viene ricordato per essere stato il primo giocatore nero nella storia della pallacanestro, ma a farlo entrare in campo furono più che altro le pressioni della stampa, in quanto il suo stesso team di manager esitò sull’ingresso di Lew nel mondo dei giocatori di basket professionisti. Ciò nonostante, viene tutt’ora ricordato per le sue abilità in campo. Quella che qualche giornalista americano ha definito WNBA (White National Basketball Association) sarebbe terminata soltanto con l’ingresso di Earl Lyod, il primo giocatore nero a mettere piede nell’NBA. Oggi, invece, sono molti i giocatori neri che sono diventati nel corso del tempo i volti dell’NBA, dal celebre Micheal Jordon al compianto Kobe Bryant, eppure gli episodi di razzismo non sono mai mancati nella storia della franchigia, nei confronti dei giocatori neri agli stessi giocatori bianchi. Si pensi, ad esempio, a Larry Bird, considerato il bianco più forte della storia dell’NBA, e c’era diverso scetticismo da parte di molti giocatori suoi contemporanei proprio per il colore della sua pelle. Altro nome è quello dell’allenatore dei Dallas Mavericks, Jason Kidd, ricordato come uno dei migliori playmaker di sempre. Fu soprannominato White Chocolate, con l’intento di rimarcare che, nonostante il colore della sua pelle, fosse comunque uno dei più forti. La storia della franchigia ricorda inoltre la vicenda di John Stockton, bianco che da circa vent’anni ha il record per assist e palle rubate nell’NBA, ma da sempre stato “oscurato” dal suo compagno di squadra degli Utah Jazz, Karl Malone, afroamericano a lungo considerato la migliore ala grande della storia. Lo slogan “Stockton to Malone” divenne famosissimo proprio per sottolineare quanto le prestazioni atletiche di Stockton fossero essenziali tanto quanto quelle di Malone. In tempi più recenti, invece, Paul Gasol, viene considerato come il miglior cestista spagnolo di sempre, tanto che Kobe Bryant affermerà che non sarebbe mai riuscito a vincere alcuni dei suoi titoli NBA senza di lui. Recentemente, infatti, i Los Angeles Lakers hanno ritirato il suo numero di maglia in segno di rispetto per il suo ruolo nella franchigia. Ma il rispetto per i propri giocatori la lega lo ha conosciuto soltanto di recente, visti i numerosi episodi di razzismo che ruotano attorno alla franchigia, dalle risse tra giocatori fino al noto “incidente della bottiglia” quando, in un’epoca in cui i neri e i bianchi non potevano neanche bere dalla stessa bottiglia, i giocatori della squadra di Barksdale si dissetarono dalla stessa bottiglia d’acqua, suscitando clamore tra gli spettatori neri e bianchi presenti alla partita.

UNA CULTURA IN MOVIMENTO: IL LIBRO DI KAREEM ABDUL-JABBAR

Sono note le parole del giornalista George Nelson che ha definito l’arrivo dei neri nel basket come il cambiamento che questo sport aspettava che accadesse. Prima, infatti, si giocava un metro più basso. In pratica l’approdo dei giocatori afroamericani avrebbe “elevato” il gioco. A voler ripercorrere la strada che la comunità nera ha percorso facendo slalom tra sport, musica e cultura è stato Kareem Abdul-Jabbar, storico giocatore dei  Los Angeles Lakers e di tutto il mondo sportivo. Dopo il ritiro si è dedicato all’attività della scrittura, con l’intenzione di dare un esempio alla sua comunità, quella afroamericana di Harlem. “On the Shoulders of Giants: My Journey Through the Harlem Renaissance” è il titolo dell’opera, una testimonianza dell’operato della comunità nera in una cornice storica drammatica per i diritti civili. Riporta le storie, come quella di Bernie Williams, di origine portoricana, giocatore di baseball con gli Yankee e chitarrista fusion. Proprio nel sottobosco del baseball californiano sarebbe spuntato per la prima volta il termine “jazz”, comparso il 2 aprile 1912 sul Los Angeles Times, con l’espressione usata da Ben Henderson, lanciatore dei Portland Beavers, che descrive un nuovo tiro: «l’ho chiamato “palla jazz”, perché oscilla e non puoi proprio fare niente per prenderla». La testimonianza, infatti, sottolineerebbe il ruolo chiave della comunità nera nella storia della nazione a stelle e strisce. Scrive sempre Abdul Jabbar:

«A volte eravamo fuori a fare una passeggiata, e mio padre mi indicava i membri di famose orchestre, gente come Ben Webster, Jimmy Rushing o Johnny Hodges. Ci camminavano accanto, con un sacchetto della spesa tra le braccia o una sigaretta tra le labbra, come fossero persone qualunque.Sembravano supereroi che se ne andavano in giro nelle loro identità segrete».

Se non è necessario giustificare il parallelo tra sport e musica nera, disegnarne un quadro ci aiuta a capire perché oggi molti atleti attivi (o dopo il ritiro) si dedichino alla musica, in particolare all’hip hop, da Shaquille O’Neal a Ron Artest. Ma questa è un’altra storia.

 

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