Frena il carbone, ma accelera l’anidride carbonica: panoramica della conversione energetica globale

Stati Uniti ed Europa si affidano meno al carbone, ma l’uso di gas naturale e petrolio fa aumentare le emissioni e l’economia crescente della Cina si prospetta pericolosa per l’ambiente

Miniera di carbone a cielo aperto (crediti: Mauri Rautkari / WWF-Canon)

Il carbone, cuore pulsante della rivoluzione industriale che ci ha proiettati nella modernità, sembra fare meno gola ai paesi più industrializzati, ma l’uso di altri combustibili fossili minaccia il pianeta e la conversione alle energie pulite e rinnovabili non sembra tenere testa.

Global Carbon Budget 2019: stiamo invertendo la rotta?

Il 2019 è stato probabilmente un anno cardine dal punto di vista dell’attenzione verso il cambiamento climatico e i disastri ambientali, costellato di manifestazioni in tutto il mondo sulla scia dell’impegno storico di associazioni come Greenpeace e WWF e rinvigorite dalla partecipazione di milioni di ragazzi ispirati da Greta Thunberg. Purtroppo però il mondo non si cambia a parole e spesso non basta qualche giorno o mese: le stime dicono che le emissioni di CO2 in atmosfera raggiungeranno i 37 miliardi di tonnellate e se sommiamo anche gli altri gas serra tocchiamo i 55 miliardi di tonnellate. Una complessa analisi chiamata Global Carbon Budget 2019, coordinata da Rob Jackson (Stanford University), ha messo in luce questi risultati, sottolineando ancora una volta quanto distanti siamo dalla soluzione. Approssimativamente, dovremmo dimezzare le nostre emissioni per rimanere entro il limite dell’aumento entro il 2050 della temperatura media globale di “solo” 1,5 °C. Il tasso di crescita, leggiamo, è in calo rispetto ai due anni precedenti attestandosi sullo 0,6%: incredibile se si pensa che nel 2018 la crescita rispetto al 2017 era del 2,1% e l’anno prima, rispetto al 2016, era dell’1,5%. Fino al 2018, il 40% circa delle emissioni era attribuibile all’uso del carbone, in particolare nella produzione di energia elettrica. La nota positiva è che il suo utilizzo sta calando progressivamente: esemplari sono gli Stati Uniti, in cui, paradossalmente se si pensa all’impegno di Trump nell’incentivare il settore, l’utilizzo si è contratto dell’11% rispetto al 2018 e del 50% rispetto al 2005. Anche l’Europa si è impegnata in tal senso e il consumo è calato del 10%. In molti casi la conversione ha premiato l’eolico e il solare, i cui costi spesso sono paragonabili, ma che hanno innumerevoli vantaggi a partire dai miglioramenti della qualità della vita nei dintorni delle centrali. Tuttavia, ci sono ragioni economiche cui non possiamo sottrarci che frenano la conversione e tirano in causa l’uso del petrolio e del gas naturale. Quest’ultimo è il miglior candidato attualmente al ruolo di “combustibile ponte”, ovvero a fonte energetica cui fare affidamento per sostenere la crescita e la conversione alle rinnovabili, in quanto costa poco estrarlo e trasportarlo e contribuisce relativamente meno alle emissioni. “Relativamente” perché le emissioni non si calcolano in funzione della CO2 prodotta da una quantità di massa unitaria, ma sul consumo totale e l’aumento dell’uso del gas naturale ha contribuito addirittura per il 60% alla crescita recente delle emissioni fossili. La decarbonizzazione, o meglio l’abbandono dei combustibili fossili, è possibile? Molto probabilmente sì, ma i ricercatori sono ben coscienti delle condizioni necessarie ed è per questo che chiedono un maggior impegno da parte dei governi nel raggiungimento degli obiettivi. Efficienza energetica, riduzione dei consumi, sviluppo delle tecnologie di stoccaggio dell’energia… non sono miraggi lontani, ma non tutti i governi sembrano davvero intenzionati ad arrivarci.

Infografica tratta dal Global Carbon Budget 2019, in cui si evidenzia l’andamento generale delle emissioni dovute a vari fattori.

L’asia cresce economicamente, ma il clima ne risente

Da anni sappiamo che l’oriente ospita economie in forte crescita, prime su tutte l’India e la Cina, ma sappiamo anche che sono paesi dilaniati da forti contraddizioni e problemi. Ad essi poi si affiancano le cosiddette Tigri asiatiche, ovvero Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong, e stati fortemente arretrati come la Mongolia. Quest’ultima è un caso a dir poco emblematico: possiede miniere ricchissime di moltissime materie prime e da sola ha il 10% delle riserve mondiali di carbone. Il problema è che non esporta il carbone perché, costando poco, viene sfruttato interamente per la produzione di elettricità e calore. La capitale mongola, Ulan Bator, rischia di diventare la capitale più inquinata al mondo, dopo Riad e Nuova Dehli, addirittura più inquinata di Pechino. In ogni caso è la Cina ad essere sotto i riflettori.  La popolazione ha toccato numeri impressionanti, tanto da richiedere politiche di controllo delle nascite, e di conseguenza la richiesta di beni e servizi è esplosa. Ovviamente, il primo settore chiamato in causa è quello dell’energia: garantire corrente a più persone possibile e fornirla alle infrastrutture delle fabbriche perché possano produrre altri beni è un punto chiave della crescita economica. Inoltre bisogna tener presente che la diffusione di un maggior benessere significa anche un cambiamento delle necessità e dei bisogni. Per fare un esempio, se più persone possono permettersi un’automobile, la compreranno così da potersi spostare più facilmente, raggiungere nuove opportunità di lavoro o espandere la propria attività commerciale. Ciò però fa sì che queste persone abbiano bisogno del carburante per far muovere il veicolo e di conseguenza aumenta la richiesta che, se soddisfatta dal mercato, contribuisce indirettamente all’aumento delle emissioni di inquinanti. Ad oggi negli Stati Uniti c’è un veicolo a motore per persona, mentre in Cina uno ogni 6 e in India uno ogni 40: facendo due conti è immediato vedere che se si raggiungessero i livelli americani le emissioni impazzirebbero. Non è un caso se in Cina le emissioni pro capite di CO2 hanno toccato i livelli europei (e ricordiamo che in Cina la popolazione è di circa 1,4 miliardi di persone, praticamente il doppio di quella europea). Sempre la Cina è responsabile della metà del consumo globale di carbone e nell’ultimo anno, complice la recessione economica, la crescita è rallentata solo dello 0,8%.  Tali risultati, leggiamo nell’articolo Out of step (di Christine Shearer, Aiqun Yu e Ted Nace), sono stati raggiunti per via delle concessioni date dal governo cinese alle province, che hanno costruito impianti a carbone per raggiungere gli obiettivi economici richiesti. Nonostante sia riconosciuta come un leader nella produzione di energia sostenibile, la Cina è quindi anche un grande utilizzatore del carbone. Se è vero che di recente il governo ha frenato la proliferazione di tali centrali, gli autori dell’articolo rimarcano il fatto che se essi arriveranno a soddisfare la richiesta di potenza preventivata anni fa sicuramente la loro presenza sarà incompatibile con gli accordi di Parigi. Per farcela, la Cina dovrebbe chiudere la maggior parte delle centrali entro il 2035.

Ogni anno la Cina aumenta di decine di Gigawatt la potenza ricavata dal carbone, mentre nel resto del mondo si è addirittura arrivati a ridurla negli ultimi due anni. (fonte: GEM, Global Coal Plant Tracker, luglio 2019)

COP25 a Madrid e l’impegno europeo per il clima

Pascal Canfin, Presidente della commissione parlamentare per l’ambiente, la salute pubblica e la sicurezza alimentare, ha dichiarato a fine novembre: “Il Parlamento europeo ha appena adottato una posizione ambiziosa in vista della prossima COP25 di Madrid. Data l’emergenza climatica e ambientale, è essenziale ridurre le nostre emissioni di gas a effetto serra del 55% entro il 2030.” Risale, infatti, alla fine di novembre 2019 la dichiarazione del Parlamento Europeo di una risoluzione che dichiara un’emergenza climatica in Europa e nel mondo. L’obiettivo, ovviamente, non è quello di far vedere che anche loro si sono accorti del problema e farsi belli davanti all’opinione pubblica, quanto piuttosto di chiedere all’UE di presentare alla COP25 proposte legislative e di bilancio in linea con l’obiettivo dell’aumento di temperatura di un grado e mezzo. Per fare chiarezza, la COP è la Conferenza mondiale ONU sui cambiamenti climatici e la sua 25^esima edizione si svolge a Madrid, dal 2 al 15 dicembre 2019. In tale occasione gli scienziati hanno ricordato l’inevitabilità della “scelta di 1,5°C”, ovvero di dover fare di tutto per non aumentare la temperatura globale entro il 2050 più di questo valore. Hanno anche sottolineato per la prima volta che il 37% delle emissioni arriva dal settore agroalimentare e la speranza generale è quella di portare problemi tecnici e dati scientifici per trovarvi una soluzione diplomatica e politica. Proprio per questo è importante il discorso tenuto da Charles Michel, presidente del Consiglio europeo che rappresenta l’UE alla COP. L’obiettivo del Presidente è quello di rendere l’Europa <<il primo continente a impatto climatico zero sul pianeta entro il 2050>> e per farlo rimarca la necessità di stanziare un fondo ambizioso per la transizione green e di destinare all’azione per il clima una quota significativa del prossimo bilancio. L’ambiziosità è tale che la Banca Europea propone mille miliardi di euro e addirittura si parla di destinare metà dei suoi finanziamenti all’azione per la sostenibilità entro il 2025. I tre punti chiave sono fornire energia sostenibile e a prezzi ragionevoli, aumentare l’efficienza energetica e promuovere un’economia circolare, stando alle parole di Michel. Concludiamo allora speranzosi con una citazione proprio dal suo discorso:

Rifiutiamo di contrapporre un clima sano a uno sviluppo sano: possiamo ottenere entrambi. In realtà, l’uno va a vantaggio dell’altro. L’Europa ha mostrato che è possibile avere un’economia in crescita e al tempo stesso ridurre le emissioni.  “Passare al verde” non deve voler dire “finire al verde”.

L’Europa è in prima linea nella lotta al cambiamento climatico, come mostra la decrescita delle emissioni di gas serra, ma è ora che tutto il mondo ascolti, dagli Stati Uniti usciti dagli accordi di Parigi, alla Cina in lotta con crescita economica, sostenibilità e diritti sociali. (Fonte dell’immagine: consilium.europea.eu)

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