Pandemia e animalismo: come il lockdown ha costretto a modificare la produzione della carne. Un breve excursus sulle filosofie dell’ambiente e la difesa dei diritti animali.
Gli animalisti esultano, ma non ancora troppo: negli USA la pandemia mette in ginocchio gli allevamenti intensivi mentre sale alle stelle la produzione di carne sintetica. La brutta notizia è che la maggior parte delle aziende, non sapendo dove inviare gli animali, hanno ammazzato molti capi di bestiame senza mezzi termini anche senza macellarli dopo. D’altra parte è vero anche che i produttori di carne sintetica stanno avendo non poche difficoltà a incentivarsi, poiché i laboratori universitari di ricerca cui fanno riferimento sono chiusi causa pandemia. Per cui la concorrenza tra i due diversi modi di produzione continua, e ancora non si può dire chi un domani l’avrà vinta. Il discorso ambientale, a cui quello degli allevamenti intensivi è strettamente legato, non è fine a se stesso: come sappiamo la pandemia di Covid-19 non ha fatto altro che mettere in luce le problematiche cruciali della nostra epoca, ovverosia quelle che vertono intorno al tema ambiente. E la questione allevamenti intensivi non è da meno. In Texas sono state due le industrie di carne diventate focolai di contagi, complici le basse temperature interne alle strutture e l’alta intensità degli impiegati, che lavorano gomito a gomito. Non è un caso che la produzione ad allevamento intensivo sia una delle principali cause del disastro ambientale. Insomma, un ennesimo avvertimento del nostro pianeta che non può più rimanere inosservato: anche la terra comincia a manifestare i suoi sintomi.
Da un grande potere, grandi responsabilità
Se prima i nostri doveri morali si riferivano solo agli altri esseri umani, ora invece abbiamo il dovere, quando agiamo, di pensare anche all’ambiente che ci circonda e agli animali. Nel corso degli ultimi decenni grazie al progresso tecnologico è aumentato il nostro potere sul mondo, e di conseguenza sono aumentate le nostre responsabilità su di esso. E cioè, se vogliamo giocare a fare i potenti significa che dobbiamo anche dimostrare che siamo capaci di gestire tutte le conseguenze che questo potere implica. Una parte importante della filosofia più recente si propone come guida riflessiva intorno alla questione: è importante capire perché interessarci dell’ambiente è un nostro dovere, perché è importante proteggerlo e salvaguardarlo e perché bisogna che cominciamo a farlo – seriamente – ora. E siamo già in ritardo. Ma finché non sarà chiaro ai grandi poteri economici e industriali, che hanno in mano il grosso dell’inquinamento e che di certo non sembrano voler mandare in fallimento la propria attività in nome di questa causa, un cambio di rotta decisivo sembra ancora molto difficile.
Biodiversità
Etica ambientale
In Etiche dell’ambiente, Matteo Andreozzi la definisce così: «estendendo il più possibile il proprio campo di interesse alle dimensioni spaziali e temporali dell’intero ambiente in cui e su cui agisce l’essere umano, e decentrando (anche solo parzialmente) il discorso dagli agenti umani, si interroga sull’eticità del nostro relazionarci direttamente o indirettamente con gli enti non umani e/o le dinamiche naturali e, quindi, sul loro status morale e sulla possibilità che questi posseggano un valore indipendente dal nostro giudizio o (quantomeno) dalla nostra utilità.» La filosofia ambientalista è particolarmente diffusa in Australia, dove i numerosi incendi, la sparizione della barriera corallina e la straordinaria biodiversità tuttavia sempre più fragile sono stati sofferti dai cittadini di uno Stato molto popoloso e che, molto più di altri, ha vissuto da vicino i reali cambiamenti dovuti al clima. Il primo nome da segnare infatti è dell’australiano Peter Singer, uno dei primi a istituire e ricoprire una cattedra dedicata interamente all’etica ambientale; e con lui Tom Regan, americano, il celebre autore di The case for animal rights. All’interno del dibattito, gli aspetti etici che ciascuno apporta a difesa della questione ambientale sono, bisogna dirlo, molto diversi: alcuni preferiscono concentrarsi sulla responsabilità umana, mentre gli altri riferiscono le loro argomentazioni agli interessi del vivente e dell’ambiente. Una delle questioni più dibattute è se l’etica ambientale sia un semplice discorso di sensibilità o se si possa spingere anche nel campo dei diritti e dei doveri; in ogni caso, il punto cruciale di ogni riflessione sull’ambiente è il valore. Un valore intrinseco, non strumentale, che appartiene ai soggetti animali e agli enti naturali indipendentemente da noi. E ai più cinici, che non sono ancora convinti di queste tesi, gli ambientalisti dicono così: il rispetto per l’ambiente è, al di là del valore intrinseco che esso può o non può avere, rispetto per le generazioni future, alle quali abbiamo il dovere di garantire, in quanto padri, la sopravvivenza in un pianeta terra straordinario e soprattutto vivibile come quello che è stato dato a noi.
La barriera corallina australiana, prima e dopo
Etica animalista
Ma è la questione animale ad avere radici ancora più profonde: già Pitagora e Plutarco, più di duemila anni fa, raccomandavano di rispettare i nostri parenti animali, mentre Porfirio proponeva di sfruttare al minimo l’ambiente circostante nutrendosi solo dei frutti della terra inutilizzati. Sono stati tanti i grandi filosofi che hanno provato a dir qualcosa sulla questione: Hume, La Mettrie, Rousseau e, rappresentando le brutalità di cui è capace l’uomo sull’animale, il pittore William Hogarth. Già nel 1776 Humphry Primatt, un autore poco conosciuto, per la prima volta dedicava un’opera intera alla questione animale: Dissertation on the duty of mercy and sin of cruelty to brute animals, fra l’altro mai tradotta in italiano. Nel testo Primatt rivendicava la necessità di portare anzi un maggiore rispetto nei confronti degli animali, che a differenza nostra non possono parlare né difendersi. Duecento anni fa: e ancora, molti di noi, sembrano non averlo capito. Oggi il discorso si fa più approfondito con la questione del maltrattamento animale negli allevamenti intensivi, una delle mille cause del problema ambientale. Quando ormai due secoli fa Darwin spiegava agli uomini che la loro era una specie casuale come tutte le altre, che si trattava solo di una possibilità evolutiva ugualmente suscettibile di estinzione, il messaggio avrebbe dovuto cominciare a radicarsi e avremmo dovuto già allora cominciare a pensare, noi che possiamo, come salvaguardarci.Ma così non è stato. Il nostro Peter Singer, sicuramente tra i filosofi ambientalisti più importanti del secolo, con Liberazione animale (1975) consegnava al mondo la pietra miliare dell’animalismo e denunciava il «razzismo di specie» in maniera decisiva e appassionata, rivolgendo un appello contro le sofferenze patite dagli animali nelle industrie cosmetiche, farmaceutiche e alimentari. Qualcosa di simile faceva l’australiano John Passmore con Men’s responsibility for nature. Parole sante, giuste, se vogliamo anche rivoluzionarie: ma che non saranno niente più di un hashtag nelle tendenze di internet finché, chi ha il potere, non le fa veramente proprie.