Femminismo liberale e vacuità della lotta al patriarcato: scopriamo la veridicità della disparità legislativa

Femministe: donne in topless sulle quali abbandonarsi ad atti onanistici. Ahimè, la situazione è più controversa di così.

Sarebbe auspicabile usare l’introduzione dell’articolo per dare una definizione di femminismo, ma non ne esiste un solo tipo. Sacrificio necessario, se non ci si vuole avventurare nella lettura di un Decamerone, è soffermarci solo sul più abbracciato.

Femminismo liberale – gli albori

Parliamo di un movimento che vede il suo Natale nell’ottocento. Periodo entro il quale Elizabeth Cady Stanton, Lucretia Mott, Mary Ann McClintock e Martha Wright presentarono, alla Convenzione di Seneca Falls di New York, la cosiddetta “Dichiarazione dei sentimenti”. Dapprima in America per poi estendersi in tutto l’occidente, questo diverrà caposaldo del movimento femminista.

“Awww :3 che dolce, una dichiarazione dei sentimenti.” Beh, non lasciamoci ingannare. Quella che può concretamente definirsi una vera e propria proposta di legge, è “carina e coccolosa” come i Pinguini di Madagascar.

Ispirata alla “Dichiarazione d’Indipendenza” di Jefferson, nonché a quella “dei diritti della donna e della cittadina” di Olympe De Gouges, così introduce e giustifica la sua esistenza:

“Quando, nel corso degli eventi umani, si rende necessario per una parte della famiglia umana assumere tra i popoli della terra una posizione diversa da quella occupata fino a quel momento, ma tale da essere legittimata dalle leggi naturali e divine, un giusto rispetto per le opinioni umane impone di dichiarare le ragioni che spingono in tale direzione.”

In altre parole? Le quattro citate, a portavoce di tutto il genere femminile, usano l’ultimo briciolo di pazienza che loro rimane, avendo l’accortezza di spiegare perché il dictat, sia sociale che politico, che le vede relegate in un preciso ruolo all’interno della famiglia, ormai calza stretto.

Quale sarebbe, quindi, l’unguento per riassemblare gli attributi femminili? Lo stesso testo sopra-citato ci fornisce le direttive:

  • Abolizione delle leggi che pongono la donna in una condizione sfavorita rispetto quella maschile, nonchè quelle che si pongono come ostacolo al raggiungimento della felicità femminile;
  • Integrazione attiva della figura femminile nell’attività politica;
  • Diritti umani corrisposti alle donne;
  • Libertà di pensiero ed espressione.

In Italia, oggi

Le femministe divampano come fiamme sul cherosene. Manifestano per uguaglianza societaria nella visione della figura femminile, nonché quella legislativa. Ragazze in piazza con i seni scoperti e le ascelle incolte sono diventate emblema del movimento. Beh, se si vuole ottenere visibilità mediatica, in modo da far arrivare messaggi al legislatore, quale miglior modo? Ma la domanda è: esiste realmente una disparità legislativa? Effettivamente sì, ma non è sempre fallocentrica come la si pensa.

Per capire meglio di cosa si sta vociferando da 10 minuti, analizziamo concretamente qualche esempio.

Ambito lavorativo

In circostanze di “capitale umano”, il punto fondante è 1: art. 3, comma 1, Cost.

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”

In ciò mi soffermerei, dapprima, sul termine “eguale” e non “uguale”. Può sembrare solo un modo arcaico per esprimere la medesima cosa, ma non è così. Per uguale si intende che a tutti debba spettare il medesimo trattamento. Eguale sancisce, d’altronde, un’ulteriore specifica. Esso fa riferimento al principio che enuncia: a tutti spetta il medesimo trattamento in situazioni analoghe e uno differente in situazioni diverse.

Ma questo in cosa si applica?

Il caso è quello del congedo di maternità, per esempio. Sottolineiamo che, solo l’8 marzo del 2000, sia stato introdotto quello di paternità (rispetto al congedo parentale esclusivamente femminile, in ritardo giusto di 29 annetti), ma parliamo di una normativa che, variata in questo arco di tempo, prevede oggi la retribuzione intera al neopapà che si assenta dal lavoro, per un massimo di 10 giorni dalla nascita o adozione del figlio. Un abisso differenziale con quello di maternità, visto che, in questo caso, si prevede l’astenzione dal lavoro per un totale di 5 mesi da giostrare in un qual si voglia periodo, dalla gravidanza alla nascita. Inoltre, è previsto il divieto di licenziamento per la lavoratrice madre (nonché per tutto il periodo intercorrente dal matrimonio all’anno successivo), diritto non citato per gli uomini. Uguale trattamento, però, è affidato nel caso di astenzione dal lavoro per allattamento. Questo, infatti, può essere preso e dal padre e dalla madre. La disparità è molta, ma sarebbe fazioso urlare all’uguaglianza legislativa per poi accettare nel concreto queste differenze.

Ciò deve portare a riflettere: è giusto lottare per l’uguaglianza?

Per ciò che concerne altre verifiche in ambito di normative lavorative, è opportuno evidenziare la parità di retribuzione e di orario lavorativo. Questo, però, non ha vietato al legislatore di prevedere sgravi fiscali pari addirittura al 100%, per chi assume donne disoccupate a tempo indeterminato. Questo, per incentivare le assunzioni femminili. In questa sede, si sta dando pretesto per nuove lotte? No, le differenze sono doverose in alcuni ambiti, in riferimento altresì all’articolo 3, comma 2, della Costituzione.

“Compito è della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale […]”

Persino l’art. 37 della Costituzione ricorda, al contempo, l’importanza della parità e specialità di trattamento in ambito lavorativo come esclusiva femminile. Di fatto, così, differenziandola dall’uomo, attraverso una tutela supplementare.

Un figlio si fa in due?

Come abbiamo concluso, grazie al paragrafo precedente, la maternità è uno dei fulcri fondanti la disparità in oggetto. Vediamo come, oltre al congedo, questo sia stato gestito dalle autorità competenti.

Come un teorema, dimostriamolo per assurdo.

Partendo dal suo speculare maschile, non ci si può esimere dal citare la celeberrima frase:

“La paternità è concessa o imposta”

Questa è facilmente strumentalizzabile, per spiegare una componente legislativa veritiera: un uomo non può scegliere di essere padre.

Il monopolio femminile sull’aborto (a tutela del diritto di scelta sul proprio corpo) e quello relativo all’obbligo di riconoscimento (a tutela del diritto costituzionale di avere un padre e una madre), escludono la possibilità che la componente maschile del nucleo nascente decida di intraprendere il cammino della genitorialità o meno. Questo è un fondamentale aspetto, quando l’essere papà condiziona l’intera esistenza (quantomeno economica, per il diritto di un figlio al mantenimento) medesimamente al diventare mamma.

Ciò come esempio di come determinate normative non rispettino un dictat patriarcale, come molte femministe ritengono, invece, lo Stato odierno.

Quindi, quando usi slogan del tipo “il corpo è mio, decido io”. Cosa stai chiedendo che cambi in concreto? E soprattutto, stai lottando per la parità?

Conclusioni

Sebbene esistano ancora molte differenze in ambito sociale, sulle quali ahimè non ci si può soffermare in questa sede, bisogna parlare per senso pratico. Prima di sfoggiare i peli indaco, chiediti perché lo stai facendo. Chiediti a cosa speri che questo gesto porti. Se poi vuoi solo fare la “carta acchiappa mosche” per l’attenzione, fai pure. Anche quello è un sacrosanto diritto, ma non spacciarla come perseguimento di ideali.

Prima, il movimento in esame puntava all’emancipazione e alla lotta al patriarcato, motivo dell’etimologia scelta. La donna era in tutto e per tutto sfavorita. Adesso che, Alessandro Borghese spostati, la situazione si sta ribaltando, bisognerebbe capire che il cardine fondante è la lotta per la parità di diritti, non esclusivamente quella per i diritti femminili. Dunque, finiamola di usare la parola “femminismo” come “vittimismo femminile”.

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