Cosa è davvero la damnatio memoriae ? Bergson legge Funes il Memorioso di Borges

Come interagiscono memoria e pensiero ? Quali sono gli effetti del loro rapporto sul nostro modo di vivere il tempo ?

J.L. Borges

Se con damnatio memoriae nel mondo latino si intendeva la condanna ad essere dimenticati, Bergson e Borges ci ricordano che, dall’altra parte, la memoria perfetta non è quella migliore per l’essere umano e la sua temporalità.

La memoria di Ireneo Funes

Ireneo Funes è nato in Uruguay nel 1868 ed è morto nel 1889 di congestione polmonare. Ireneo Funes ha vissuto per una durata breve in questo mondo, senza lasciare evidenti tracce del suo passaggio. Eppure, per chi lo ha conosciuto, Ireneo Funes è stato monumentale come il bronzo, più antico dell’Egitto, anteriore alle profezie e alle piramidi e perpetuarne la memoria è per questi forse l’atto più paradossale e indegno: l’unica persona che potesse veramente dirsi in grado di ricordare, dotata di una memoria perfetta, era infatti Ireneo Funes.

Non aveva compiuto vent’anni quando, in seguito ad una caduta da cavallo, la breve vita del giovane uruguayano è cambiata: l’incidente infatti aveva procurato a Funes una paralisi irreversibile, dalla quale non sarebbe potuto guarire. Eppure, nonostante la prigionia corporea, sembrava dar l’impressione di sentirsi migliore, quasi come gli fosse stato fatto il dono di una nuova prospettiva sul mondo. E in effetti il suo modo di vedere le cose non è stato più lo stesso, in quanto da quel giorno, per chissà quale trauma cerebrale, Funes aveva acquisito una memoria infallibile. Anzi, stando a quanto lui stesso racconta, è stato proprio questo il cambiamento che ha notato per primo, giudicando la paralisi quasi una sua conseguenza necessaria e di secondaria importanza: adesso ogni sensazione era così potente e il presente era tanto ricco, carico della spinta di innumerabili e vivissimi ricordi, che accorgersi di qualsiasi altra cosa avrebbe richiesto uno sforzo troppo grande per una mente umana. Da quel momento infatti Funes era diventato capace di imparare lingue antiche in poche ore, poteva rievocare dettagli microscopici di lontani ricordi che non sapeva nemmeno di conservare, era in grado di rivivere sogni vividi come la realtà. Ora il mondo si era trasformato per lui in un gigantesco cantiere in continua costruzione, un luogo pieno di sorprese sempre nuove.

Per quel prodigio infatti era diventato ormai impossibile, tanto era dettagliata e impeccabile la sua memoria, non trovare un’infinità di differenze non solo tra un cane e l’altro, ma persino tra lo stesso cane visto in diversi momenti della giornata, tanto che gli veniva difficile usare il medesimo nome per entrambi. Funes aveva provato a dare un ordine a questo ammasso caotico cercando da una parte di creare un catalogo completo di ogni suo ricordo, dall’altra di coniare un linguaggio che prevedesse un nome unico per ognuno di essi, ma entrambi i progetti si rivelarono irrealizzabili e inutili, inconcludenti. Così, insieme a tante doti, quella straordinaria memoria gli aveva procurato altrettanti deficit: la capacità di notare tutte quelle differenze tra animali ed oggetti dello stesso tipo gli rendeva impossibile fare astrazioni e concepire idee generali; la necessità di un linguaggio specifico gli rendeva difficile comunicare in modo chiaro; la mole di dati da registrare era talmente vasta che non poteva metterne a frutto l’utilità, dato che era a stento in grado di elaborarli.

Funes era diventato in un certo senso il più grande database esistente, quello definitivo, ma senza un programma per interpretare quanto accumulava, per mettere all’opera quel suo dono. Privo di libertà d’azione, privo di pensiero. Eppure, nella sua immobilità, monumentale come il bronzo, più antico dell’Egitto, anteriore alle profezie e alle piramidi.

H. Bergson

Bergson e la temporalità conica

La memoria costituisce certamente uno dei pilastri fondamentali nell’edificio della riflessione bergsoniana, concetto senza il quale il modo in cui noi umani viviamo il tempo e la natura umana stessa rimarrebbero oscuri e inspiegabili. Tuttavia questa facoltà non è l’unica peculiarità dell’uomo ed ignorarne gli altri aspetti essenziali sarebbe un errore grave tanto quanto quello di trascurare la prima: la sola memoria infatti ci restituirebbe un’immagine soltanto parziale (e quindi sbagliata) dell’essenza umana. La migliore immagine per comprendere tutto ciò ce la fornisce Bergson stesso, quando paragona la nostra attività psichica ad un cono.

Immaginiamo un cono rovesciato: la sua base raffigura la memoria pura e perfetta, simile a quella di Funes, mentre, all’estremo opposto, la sua punta rappresenta quella che Bergson chiama percezione pura, ovvero la nostra capacità quasi istintiva e preriflessiva di agire e reagire. Secondo il filosofo francese, la nostra mente opera come fosse in continuo movimento, spostandosi tra la base e la punta del cono, ora più vicino all’una, ora all’altra: quando, ad esempio, stiamo cercando di raccontare una nostra vicenda passata, la nostra mente è prossima alla base del cono; viceversa, durante una partita di calcio o di qualsiasi altro sport, quando dobbiamo essere reattivi e precisi nell’esecuzione di certi movimenti, la nostra mente è prossima alla punta del cono. Questi due poli definiscono così altrettanti possibili atteggiamenti nei confronti della vita e del mondo, l’uno opposto all’altro (quelli che Bergson chiama tipi psicologici): dal lato della base si trova il sognatore, l’uomo calmo e riflessivo, sempre immerso nella profondità della sua memoria e del suo pensiero, attento ai dettagli e alle differenze, ma dallo scarso senso pratico; dal lato della punta vi è invece l’uomo d’azione, quello che sa cosa fare ed è pronto ad agire in ogni momento, senza badare a futilità e riconoscendo prontamente le somiglianze, ma privo di grandi capacità riflessive.

Tuttavia sognatore e uomo d’azione, base e punta, sono estremizzazioni ideali e teoriche, dunque irreali. Non esistono il puro sognatore, eternamente inattivo, e l’uomo d’azione, totalmente incapace di pensare e ricordare. Questi tipi (anzi, stereotipi) sono delle tendenze verso cui possiamo fletterci con più decisione in determinati momenti, ma che non realizziamo mai pienamente. E’ vero piuttosto che questi due aspetti diversi convivono in noi, ogni volta diluiti in quantità diverse, e che senza l’uno non sarebbe possibile l’altro: la nostra mente infatti è come un movimento senza sosta all’interno del cono, che se si fermasse in uno dei suoi estremi cesserebbe la sua attività. Questo movimento e questa convivenza dunque sono ciò che rende possibile il nostro pensiero e che determina la nostra temporalità, in quanto il primo è l’elaborazione di concetti, ovvero il saper tracciare allo stesso tempo differenze particolari e somiglianze generali e la seconda è la mescolanza e la reciproca dipendenza di passato, presente e futuro. Senza la memoria del passato riportata al presente infatti non esisterebbe per noi un futuro aperto a molteplici possibilità (non potremmo nemmeno imparare dai nostri errori), ma allo stesso tempo senza un la pressione del futuro sul presente attivo, non ci sarebbe il bisogno di rievocare la memoria del passato.

Capiamo così come la temporalità vissuta dagli esseri umani (una temporalità che potremmo definire conica) sia possibile grazie alla memoria, ma come allo stesso modo quest’ultima da sola ci proietterebbe in una dimensione temporale e mentale a noi in realtà aliena.

Cono della memoria, tratto dal saggio Materia e Memoria di H. Bergson

Ut nihil non iisdem verbis redderetur auditum

Nel mondo latino la damnatio memoriae era la condanna ad essere dimenticati, come se non si fosse mai esisti (anche in senso giuridico, cancellando ogni documento e traccia legale del condannato). E’ in effetti facile notare come il difetto di memoria ( della nostra verso gli altri esseri o di quella altrui versi di noi), dalle chiavi scordate in macchina ai più gravi casi di Alzheimer, possa essere una vera maledizione. Tuttavia è più difficile riconoscere come anche l’eccesso di memoria, la quale viene invece spesso agognata come una benedizione, sia un’altrettanto dannosa rovina.

In questo senso l’esempio di Funes, letto con gli strumenti della filosofia di Bergson, è emblematico: il protagonista del racconto di Borges, ottenendo una memoria bergsonianamente pura, allo stesso tempo perde la capacità di usare il linguaggio naturale perché troppo vago, è costretto a stare al buio quasi completo per non dover ricordare ogni singolo fotogramma di quello che vede alla luce del giorno, ha problemi di insonnia durante la notte per l’enormità di dati che si ritrova ad assimilare durante il giorno, non riesce ad elaborare pensieri troppo profondi perché ormai incapace di fare astrazioni e generalizzazioni. In breve, Funes perde la capacità di agire, di avvicinarsi quel tanto che basta alla punta del cono per mettere in moto il movimento della mente e pensare. Non è un caso che la paralisi gli sia sembrata una naturale conseguenza di quella memoria. Il mondo visto dalla base del cono si rivela così inattivo e superficiale, un mondo nel quale il tempo sembra quasi smettere di scorrere, il futuro cessa di essere una speranza di nuove possibilità e il presente diventa un cavallo che ci travolge anziché farsi domare dalla nostra azione.

Se dunque la prospettiva di una memoria perfetta ci può sembrare allettante, questo è dovuto al fatto che non abbiamo una chiara idea di cosa sia la memoria di quale ruolo giochi all’interno del nostro equilibrio psichico: desiderare tale memoria senza vedere alterata la nostra visione della realtà e la natura umana stessa sarebbe, alla luce della teoria di Bergson, un’assurda pretesa.

Adesso risuonano con un’eco più forte le parole di Plinio: ut nihil non iisdem verbis redderetur auditum, nulla  di ciò che è stato ascoltato può essere raccontato con le stesse parole, quasi a volerci suggerire che la nostra temporalità ha un ritmo preciso e che quella memoria perfetta non è fatta per gli umani.

 

 

 

 

 

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