Giacomo Leopardi, oltre ad essere un artista di inestimabile grandezza era, prima di tutto, un uomo che aveva capito la peculiarità della felicità. Si fa presto a dire d’esser felici. Ma ci siamo mai realmente soffermati a pensare cosa intendiamo, noi, per “felicità”? Leopardi lo ha fatto. Non per dire che non esistesse, ma per cercare, quasi disperatamente, di spiegarne la rarità, ovvero la preziosità.
Ormai si è diffusa a macchia d’olio l’immagine stereotipata di un Leopardi storpio, solo e depresso. Questo luogo comune ha certamente un fondo di verità, sappiamo infatti come Leopardi si sia ritrovato ad esser figlio di un destino particolarmente infelice. In questo articolo cercheremo di andare oltre lo stereotipo di “uomo depresso” che si è posato sul capo del povero poeta come un’infausta ombra, direbbe Virgilio, tentando di far luce sul suo modo, reale ed umano, di vivere la gioia, il dolore e la vita.
Giacomo Leopardi: un poeta che conosceva a fondo il valore di una risata.
Due o più persone in un luogo pubblico o in un’adunanza qualsivoglia, che stieno ridendo tra loro in modo osservabile, né sappiano gli altri di che, generano in tutti i presenti tale apprensione, che ogni discorso tra questi divien serio, molti ammutoliscono, alcuni si partono, i più intrepidi si accostano a quelli che ridono, procurando di essere accettati a ridere in compagnia loro. Come se si udissero scoppi di artiglierie vicine, dove fossero genti al buio: tutti n’andrebbero in scompiglio, non sapendo a chi possano toccare i colpi in caso che l’artiglieria fosse carica a palla. Il ridere concilia stima e rispetto anche dagl’ignoti, tira a se l’attenzione di tutti i circostanti, e dà fra questi una sorte di superiorità. E se, come accade, tu ti ritrovassi in qualche luogo alle volte o non curato o trattato con alterigia o scortesemente, tu non hai a far altro che scegliere tra i presenti uno che ti paia a proposito, e con quello ridere franco e aperto e con perseveranza, mostrando più che puoi che il riso ti venga dal cuore: e se forse vi sono alcuni che ti deridano, ridere con voce più chiara e con più costanza che i derisori. Tu devi essere assai sfortunato se, avvedutisi del tuo ridere, i più orgogliosi e i più petulanti della compagnia, e quelli che più torcevano da te il viso, fatta brevissima resistenza, o non si danno alla fuga, o non vengono spontanei a chieder pace, ricercando la tua favella, e forse profferendotisi per amici. Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso: contro il quale nessuno nella sua coscienza trova se munito da ogni parte. Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire.
[Giacomo Leopardi, Pensieri, LXXVIII]
La prima cosa che ho voluto fare, all’inizio di questo breve viaggio, è stato citare silenziosamente un bellissimo estratto dai “Pensieri” del poeta. Ed ancor più mi preme sottolineare questo: Giacomo Leopardi era perfettamente cosciente del valore e della bellezza della felicità. Probabilmente è proprio per questo che, negli anni successivi alla fanciullezza, è diventato sempre più melanconico. Perché una volta conosciuta la vera felicità, quella autentica, quando un’anima sensibile come la sua arriva a perderla, ne viene quasi annientata.
Quasi.
Tendiamo ad ironizzare sulla natura malinconica del poeta, perché essenzialmente le sue verità, che sono anche le nostre, ci spaventano. Perché tutti, nessuno escluso, conosciamo il dolore, la fatica. Perciò, al fine di esorcizzare le nostre paure, spesso tendiamo a minimizzarle, a comprimerle come un file .RAR per non pensarci più, e quando qualcuno (non sia mai!) tira fuori l’argomento, lo additiamo come un piagnucolone, un depresso. In gergo adolescenziale potremmo anche dire: un “emo”. Ma Leopardi non era uno a cui piaceva farsi del male. Piuttosto, era qualcuno a cui la vita aveva fatto del male, e lui, invece che soccombere, ha reagito.
Leopardi era un sognatore divenuto realista, non certo depresso.
Per comprendere meglio la natura della melanconia leopardiana, basterà dire che il poeta appare “depresso” e sconfitto a molti perché ripete spesso una semplice verità: la felicità, quella autentica e piena, è rara. Non rara soltanto perché è difficile da trovare, ma rara in quanto preziosa, la più preziosa tra le emozioni umane. Ciò non toglie che questa esista, esista davvero. Ma col passare degli anni, la felicità comincia a sembrare un’illusione a molti e soprattutto agli occhi del poeta, che l’ha conosciuta e poi l’ha persa. Immaginate per un attimo d’esser colpiti da diverse malattie, da lutti profondi e sventure, dopo aver conosciuto la vera gioia. Non è forse la reazione più umana e naturale, quella di adirarsi con la vita e di ricredersi sulla natura della felicità? Il poeta, tutto questo, lo esprimeva con la sua arte: la scrittura. Ma nella realtà, quelle che Leopardi scrive sulla tristezza e sul dolore, sono parole pregne di un sotto-testo costante che risulta chiaro, se ci si sofferma un attimo a leggere tra le righe: lui non perde mai la speranza. Continua a scrivere di quanto la felicità sia un’illusione, di quanto la vita per lui sia solo un male, ma utilizza spesso parole come “forse”, spesso metafore di luoghi e momenti felici in cui vorrebbe ritrovarsi, continua a sognare. Nel suo cuore, nel profondo della sua anima, c’è qualcosa che ancora lo spinge a gioire della natura, nonostante le sue profonde sofferenze fisiche, a scrivere, ad osservare ogni cosa che lo circonda. In fondo, Leopardi non molla mai. Non si lascia morire. Ergo, non è depresso. Depresso è colui il quale si ritrova talmente afflitto dalle proprie sventure, da non trovare alcun motivo per continuare a vivere, per continuare a fare qualsiasi cosa oltre che fissare una parete. Giacomo Leopardi questo non l’ha mai fatto. Non ha mai smesso di essere un artista, nemmeno quando gli occhi lo hanno quasi del tutto abbandonato, perché con l’aiuto delle persone a lui care, a cui dettava le sue opere, continuava a scrivere.
Le sue preoccupazioni erano quelle che tormentano ognuno di noi.
Ove tende questo vagar mio breve?
Scrive Leopardi in uno dei canti più belli della sua raccolta, “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, testo poetico che, se vogliamo, raccoglie in poche pagine tutta l’essenza del dubbio esistenziale di sempre: noi, chi siamo? Dove andiamo? A che pro siamo venuti al mondo?
E che non sembrino solo angosciose elucubrazioni senza uscita, queste. Sono anche curiosità che ci spingono a dare ancora più senso alla nostra vita, perché ognuno di noi, per convinzione o necessità, trae alla fine le proprie risposte e conclusioni. Grazie a queste conclusioni prendiamo le nostre scelte, tracciamo i nostri sentieri, continuiamo a vivere.
L’importante, per noi come per il poeta, è che queste domande siano sempre accompagnate dalla nostra fedele ancella: la Speranza.
La speranza è come l’amor proprio, dal quale immediatamente deriva. L’uno e l’altra non possono, per essenza e natura dell’animale, abbandonarlo mai finch’egli vive, cioè sente la sua esistenza.
– Zibaldone, 31 dicembre 1821.
Sentire la propria esistenza. Ecco una delle cose in cui Leopardi è stato un maestro: sentire. Sperimentare a pieno, intensamente la vita e tutte le sue contraddizioni. In termini moderni, possiamo pensare a Leopardi come un “tossicodipendente di emozioni”. Utilizzo questo strambo accostamento, perchè potrebbe far intendere meglio quanto il poeta fosse sensibile nei confronti vita, quanto fosse preso da essa ed anche in sua balìa. Molte persone, tutt’oggi, tendono a sentire la propria esistenza come fosse amplificata. I dolori, le gioie. Chiamatela sensibilità, empatia, fragilità. Io la chiamo semplicemente umanità. Quell’umanità che è e sarà sempre preferibile ai mostri che dilagano oggi in noi: apatia ed indifferenza. Leopardi ci insegna che va bene, avere paura. Va bene essere tristi, sentire dentro di noi il malcontento di una vita che a volte, diciamolo, ci calpesta per bene. Ci insegna anche che, nonostante tutto, bisogna accettare la natura imprevedibile della vita senza perdere la speranza. Leopardi non si lascia atterrire dalle sue sventure e prende in mano la sua vita, continua a lottare. E c’è ancora qualcuno che crede che sia solo un povero ragazzo depresso e sconfitto! Nulla di più sbagliato. Perché colui che si alza a barcollare contro le sue debolezze, con lentezza e fatica, è mille volte più forte di un giovane maratoneta che corre perché non ha alcun dolore addosso.
Vedere Giacomo Leopardi per il “giovane favoloso” che realmente era: “L’arte di essere fragili” del Professor Alessandro D’Avenia.
C’è un’opera incantevole, sul poeta Giacomo Leopardi, scritta recentemente da Alessandro D’Avenia: L’arte di essere fragili. Un’opera in cui l’autore si propone di ripercorrere gli aspetti salienti della vita umana, nelle sue fasi, scrivendo delle lettere al poeta, come se gli “rispondesse”. Ed effettivamente, chi sarebbero i posteri a cui Leopardi tramanda i suoi insegnamenti, se non noi? Generazione ibrida, che attraversa un periodo complicatissimo, un periodo di transizione, in cui domina la paura d’essere fragili, d’essere diversi, di non essere sempre “al top”. La nostra generazione, la generazione di coloro che si ritrovano quasi adulti e senza futuro, oltre che di coloro che stanno per affrontare il mondo dell’adolescenza, ha quantomai bisogno delle parole di Giacomo Leopardi. Alessandro D’Avenia compie così un delicatissimo e perfettamente riuscito tentativo di “fare da tramite” tra noi ed il poeta. Tramite le parole del professore, scopriamo ciò che abbiamo solo accennato poc’anzi, la spiccata tendenza che Leopardi aveva di meravigliarsi, di lasciarsi rapire dalla bellezza. Ecco un frammento d’una lettera che Leopardi scrive a Pietro Giordani, citata da D’Avenia:
Quando io vedo la natura in questi luoghi che veramente sono ameni (unica cosa buona che abbia la mia patria) e in questi tempi spezialmente, mi sento così trasportare fuor di me stesso, che mi parrebbe di far peccato mortale a non curarmene, e a lasciar passare questo ardore di gioventù, e a voler divenire buon prosatore, e aspettare una ventina d’anni per darmi alla poesia.
Scrive D’Avenia riguardo a queste parole, rivolgendosi al poeta stesso:
Queste righe […] sono la testimonianza del tuo minuto di rapimento, quel contatto vitale con la realtà che ci fa entrare in risonanza come un diapason, fino a capire che quella è la nostra tonalità, che quello spazio è casa nostra, che è lì che vorremmo abitare, perché è lì che ci sentiamo a casa, ovunque nel mondo.
Il rapimento che Leopardi sperimenta nella natura, che D’Avenia ha così limpidamente descritto, è ciò che ci fa alzare dal letto la mattina, il più delle volte. Il rapimento può renderci aperti alle bellezze del mondo, alle gioie ed alle miserie del nostro prossimo, il rapimento avviene ogni qual volta ci sentiamo “trasportati” da qualche tipo di storia o argomento, come in balìa delle maree.
Leopardi e D’Avenia, due anime belle, due anime che ci fanno sentire meno soli.
Non solo di “rapimento” parla il professore rifacendosi a Leopardi. Uno degli argomenti più importanti del suo libro è l’importanza di saper essere fragili. Lo smarrimento, ma anche la bellezza, che ne derivano. E quanto Leopardi ci abbia insegnato a navigare nelle acque oscure della fragilità, della debolezza umana.
Scrive D’Avenia riguardo lo stereotipo di “ragazzo sfigato” che attanaglia la figura di Giacomo:
Ti difendi da solo o devo farlo io? Puoi farlo da solo, ma io devo ridurre la distanza tra la corazza dei miei studenti e la tua pelle. Devo spaccare quell’armatura di paure che impedisce loro di capire che l’arte da imparare in questa vita non è quella di essere invincibili e perfetti, ma quella di saper essere come si è, invincibilmente fragili e imperfetti.
A questo punto D’Avenia cita le parole del poeta, che lasciano trasparire tutta la forza d’animo di cui parlavamo nei paragrafi precedenti:
Questa ed altre misere circostanze ha posto la fortuna intorno alla mia vita, dandomi una cotale apertura di intelletto perché io le vedessi chiaramente, e m’accorgessi di quello che sono, e di cuore perché egli conoscesse che a lui non si conviene l’allegria, e, quasi vestendosi a lutto, si togliesse la malinconia per compagna eterna e inseparabile.
[Lettera a Pietro Giordani]
“Chi ha l’ardire di chiamare sfigato un ragazzo così – scrive poi D’Avenia – capace di accettare e trasformare le sue sfortune in trampolino per aprire la testa e il cuore? Chi è capace come lui di affrontare la vita con questo coraggio e avere la malinconia come compagna di cammino, e nonostante questo creare così tanta bellezza?”
C’è solo molto da imparare dalle parole di Giacomo Leopardi. Che cessi dunque questa ridicola beffa carnevalesca che vuol far di un uomo profondo, sensibile e geniale, un capro espiatorio delle paure altrui. Abbiamo tutti paura. Qui nessuno ha i super poteri. Cerchiamo di accettarci un pò per quello che siamo: umani fragili e coraggiosi alla ricerca di un pò di felicità.
Meraviglioso, semplicemente forte, vero, profondo! Grazie al Professore D’ Avenia e grazie al Maestro Leopardi!