È vero che l’ambiente sociale nel quale si cresce può influenzare i nostri comportamenti? O siamo separati dalle esperienze che viviamo?
La criminalità giovanile è un tema quasi sempre attuale, il quale, tuttavia, ha assunto un’importanza preoccupante nel Nostro Paese nel corso degli ultimi anni. Si sente sempre più parlare di “baby-gang”, gruppi di adolescenti privi di scrupoli morali, senza senso di responsabilità che intraprendono attività criminali.
Perché nasce la delinquenza giovanile?
Nel delicato periodo adolescenziale molti giovani, spinti dal desiderio di affermarsi, essere accettati o, semplicemente, di sentirsi parte di qualcosa, si avvicinano a gruppi criminali formati da coetanei.
La violenza che vede i giovani protagonisti non ha un’unica origine, ma può essere ricondotta a vari fattori, quali la diffusione di modelli di comportamento aggressivi attraverso i media, il senso di potenza che li porta ad agire o la sensazione di limite nel trasgredire le regole, che genera adrenalina e fa “sentire vivi”. I fatti illeciti compiuti da giovani vanno da furti, spaccio di stupefacenti, atti di vandalismo, fino ad arrivare a rapine e, talvolta, omicidi.
Spesso i componenti di queste baby-gang sono ragazzi con problemi familiari, cresciuti in contesti sociali disagiati o in condizioni di forte difficoltà economica, che limita le possibilità di integrazione nella società e, di conseguenza, emargina i soggetti che ne fanno parte. Generalmente è la famiglia, luogo nel quale avviene la socializzazione primaria, ad essere uno dei fattori determinanti nel processo di formazioni dei “baby-criminali”. È stato riscontrato infatti, che in situazioni familiari caratterizzate da eventi traumatici, quali separazioni, divorzi, lutti o abusi, l’indice di incidenza della criminalità giovanile sia maggiore.
Le teorie della criminalità: la teoria della subcultura
Questo tipo di delinquenza può essere ricondotto al più ampio fenomeno della devianza, termine con il quale si intende “ogni atto o comportamento di una persona o di un gruppo che viola le norme di una collettività e che di conseguenza va incontro a qualche forma di sanzione”. Molti sociologi hanno sostenuto nel corso del tempo che la devianza, come anche la conformità alle regole, venga appresa dagli individui attraverso l’ambiente nel quale essi vivono. Una persona quindi, commetterebbe un atto illecito perché si è formata in una cosiddetta “subcultura criminale”, la quale ha valori non coincidenti con la società comune. Una delle teorie sociologiche più importanti in questo campo è sicuramente quella degli studiosi della Scuola di Chicago, Clifford Shaw ed Henry McKay, nel 1929. Essi hanno condotto un’importante ricerca calcolando il tasso di delinquenza (rapporto tra il numero dei reati denunciati e la popolazione totale residente nella stessa area), scoprendo che mano a mano che ci si allontanava dal centro della città, nel quale vivevano principalmente immigrati appartenenti a diversi gruppi etnici, il tasso di delinquenza diminuiva. Tuttavia scoprirono anche che, nei vent’anni precedenti, la composizione etnica della popolazione fosse profondamente cambiata, pur rimanendo il tasso di delinquenza costante. Shaw e McKay arrivarono alla conclusione che nei quartieri con un tasso di delinquenza maggiore vi fossero valori e norme favorevoli ad essa, che venivano trasferiti in quell’area attraverso l’interazione sociale. La teoria della subcultura è stata ripresa anche da un famoso criminologo americano del XX secolo, Edwin H. Sutherland, secondo il quale il comportamento deviante viene appreso dall’individuo attraverso la comunicazione con altre persone. Pertanto, quanto più una persona frequenterà ambienti nei quali prevale la violazione di norme, tanto più sarà probabile che questa persona diventi deviante per conformarsi alle aspettative del suo ambiente. In conclusione, ad essere deviante non è l’individuo, ma il gruppo a cui egli appartiene.
La lezione dei “Freedom Writers”
“Nessuno ascolta mai gli adolescenti. Tutti pensano che uno è felice solo perché è giovane. Nessuno vede la guerra che combattiamo ogni giorno.” È una delle frasi più celebri del film “Freedom Writers”, ambientato poco dopo l’ondata di violenza del 1992 di Los Angeles caratterizzata da lotta tra gang, odio razziale e violenza. Il titolo del film richiama i “Freedom Riders”, giovani attivisti per i diritti civili degli anni ‘60 che protestarono contro la segregazione razziale negli USA. Tratto dal libro “The Freedom Writers Diary”, racconta la vera storia di Erin Gruwell, una professoressa alle prime armi a cui viene affidata una classe di liceo di Long Beach, in California. La classe è composta da ragazzi provenienti da gruppi etnici diversi, ma tutti cresciuti in quartieri degradati e con gravi problemi familiari. Essi condividono la diffidenza verso chi è diverso da loro e la disillusione, causata dall’ambiente sociale che li circonda. La professoressa comprende che per i ragazzi la scuola è solo un luogo nel quale si rispecchia il mondo in cui vivono, caratterizzato da ingiustizie, diviso per gruppi razziali e devastato da lotte tra bande rivali. Ispirandosi al “Diario di Anna Frank”, la prof. Gruwell porta a ciascun alunno un diario, che potranno poi farle leggere, nel quale scrivere i propri pensieri, raccontare le proprie esperienze, ma anche i propri sogni e progetti futuri. In questo modo la scrittura diventa lo strumento attraverso il quale i ragazzi sentono di poter essere ascoltati, sentendosi importanti per qualcuno che crede in loro. Inoltre imparano a riflettere su loro stessi e sul loro rapporto con gli altri, capendo quanto sia importante il confronto. Combattendo contro un sistema che emargina sempre di più coloro che si trovano in condizioni disagiate, la professoressa riesce a risanare le anime dei ragazzi, distrutte dalla violenza e dall’odio.