Ripercorriamo insieme il viaggio di un verso reso immortale dallo stilo di Dante, ma ringiovanito dalle voci di Venditti e Jovanotti.
Il 25 Marzo è stato, come noto, il Dantedì e l’Italia tutta s’è prodigata per celebrare colui che, secondo almeno Aldo Cazzullo, ha dato origine all’Italia stessa, ché la nostra penisola, scrive il giornalista nel suo ultimo saggio A riveder le stelle, «ha questo di straordinario rispetto alle altre nazioni. Non è nata dalla politica o dalla guerra. É nata dalla cultura e dalla bellezza.»
Ci vorrebbe un amico, per cantare una…Serenata rap
É, insomma, in maniera inedita e straordinaria, nata dalla lingua.
E la nostra lingua attuale molto deve, effettivamente, all’Alighieri in termini di vocaboli, certo, ma anche e non meno di motti ed espressioni divenuti proverbiali, anzi, tanto proverbiali da essere confluiti, persino, in canzoni.
Arrivati a questo punto, forse vi starete chiedendo a cosa mi riferisca e, per rispondere a questo, mi servo di Antonello Venditti e della sua Ci vorrebbe un amico, del 1984, e di Lorenzo Jovanotti e della sua Serenata rap, di dieci anni successiva.
Cosa condividono queste due canzoni, così dissimili per contenuto, l’una canta infatti la sofferenza per un amore finito (peraltro reale e biografico per il matrimonio naufragato con la Izzo), l’altra il solletico della conquista, e ritmo, morbido e lento la prima, incalzante e travolgente la seconda?
Condividono una citazione…dantesca, guarda caso.
Il cantautore romano, infatti, desiderando un amico con cui potersi intrattenere per dimenticare, almeno temporaneamente, tutto il male d’amore, recita e «se amor ch’a nullo amato, amore, amore mio perdona», esattamente come rappa il Cherubini, il quale, dopo aver vinto la propria timidezza da innamorato e aver trovato il coraggio di intonare queste sequenze ritmate, invoca la regola amorosa per eccellenza vigente nel Medioevo e si ripromette di scriverla sui muri, integrandola con un intercalare così contemporaneo «amor, ch’a nullo amato amar perdona, porco cane!».
Amor ch’a nullo amato amar perdona (porco cane)
Quale la fonte comune di una foce tanto diversa?
Dante, certo, s’è già detto, ma quale Dante?
Il Dante più celebre e commentato, quello dei vv.100-108 del canto V dell’Inferno, che é, a conti fatti, il canto più celebre e commentato proprio perché mette a tema la questione decisiva della vita: quella dell’amore, sentimento che Dante, per bocca di Francesca, inscena alla maniera ancora perfettamente cortese e stilnovista, come recitano le terzine:
Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.
Chi eravamo e chi non siamo più: ecco cosa insegna Dante
In esse, la bella peccatrice di Rimini mette a punto le verità che lei sa sull’amore: una ancora contemporanea, certo, l’altra, invece, irrimediabilmente distante.
Amore e cuore gentile, ci dice candidamente Francesca, sono una cosa sola e formano, come già Guinizzelli aveva detto, un binomio indissolubile; del resto, è proprio della natura del cuore nobile essere più sensibile alla bellezza, al richiamo di amore e fino a qui nulla di anacronistico, potremmo dire.
Le distanze iniziano, invece, nelle parole successive, in cui si presenta un altro luogo comune dello Stilnovo e che è proprio quello citato dai due cantanti nel tardo Novecento.
Insomma, il precetto di Andrea Cappellano secondo cui l’amore non risparmia a nessun amato l’amare, è proprio vero o é distante, cronologicamente e anche ideologicamente, da noi?
Personalmente, propenderei per la distanza.
Per la distanza? E perché? Perché se é ripreso pure da voci recenti che ancora è possibile sentire, in qualche nostalgica trasmissione, alla radio?
Perché non è vero, e forse vero non lo è mai stato, che uno, quando è amato, non può non ricambiare.
Anzi, quant’é più facile imbattersi in amori non ricambiati?
Dante, evidentemente, ha una concezione diversa dalla mia, dalla nostra, più ideale forse, certo letteraria ed è quella l’ancora cui Venditti e Jovanotti si appigliano, cercando di ripristinarne in duecentesco senso, quando sentono, rispettivamente, di non poter essere amati più o di meritare una chance ancora.
(E in questa distanza è anche la contemporaneità di Dante, che ci consegna in questo modo una più consapevole identità: quella che evidenzia in cosa ne siamo eredi e in cosa invece, purtroppo o per fortuna, non lo siamo più.)