Carl Von Clausewitz e l’epistemologia della guerra

Una definizione utilizzata per descrivere la guerra è stata quella di camaleonte, perché nella sua natura essa è cangiante, non è possibile esaurirla a priori. In generale, la configurazione degli stati di cose e degli uomini è tale che la storia della guerra del passato sia necessariamente diversa dal presente e dal futuro. Solo a un livello astratto la guerra presenta caratteristiche che rimangono immutate nel tempo, ma nel concreto essa si presenta sempre diversa.

Carl Von Clausewitz

Seguendo gli scritti di Carl Von Clausewitz, generale e filosofo prussiano, in guerra sussistono solo fatti, non interpretazioni. In altre parole, il problema principale di chi è coinvolto nelle azioni militari, sia in chi comanda, sia in chi esegue i comandi, è quello di giungere alla conoscenza dei fatti. Un fatto può essere inteso “alla Wittgenstein”, ovvero come una configurazione di stati di cose. A determinati stati di cose corrispondono proposizioni, le quali se corrispondono alla realtà saranno vere, altrimenti false.

La guerra è stata prima definita come un camaleonte, proprio perché la sua natura è cangiante, non è possibile esaurirla a priori. Risulta, quindi, necessario investigarne le condizioni contingenti per giungere a una reale conoscenza della realtà della guerra. Clausewitz, in Analisi di filosofia della guerra (che è la base su cui fondiamo il nostro articolo), afferma che per massimizzare la probabilità di riuscire a pervenire a informazioni certe sulla realtà bisogna usare il buon senso e la teoria della probabilità.

«In questo modo tutto l’atto di guerra si sottrae alla legge rigorosa delle forze spinte all’estremo. Se l’estremo non è più temuto né ricercato, tocca al giudizio stabilire i limiti degli sforzi. E questo può avvenire soltanto secondo le leggi della probabilità a partire dai fatti forniti dal mondo reale». (Clausewitz)

8 settembre 1855: la battaglia per il bastione di Malachov durante l’assedio di Sebastopoli ritratta dal pittore Adolphe Yvon (1817–1893)

Il passo è rilevante, in particolare perché ribadisce esplicitamente che la conoscenza, anche sulla base di un calcolo, si gioca sulla conoscenza dei fatti. In modo sostanziale, se si vogliono prendere decisioni corrette è totalmente necessario comprendere la realtà, supponendo che in essa sussistano dei fatti, che tali fatti siano indipendenti dalla mia immaginazione e dalla mia volontà, la cui conoscenza, viceversa, sta nell’adeguamento dell’intelletto alla cosa, sotto supposizione che questa cosa esista.

La conoscenza è credenza vera giustificata, almeno. Questa è la definizione invalsa, con convincenti ragioni, dall’epistemologia analitica contemporanea. Clausewitz l’avrebbe adottata e in tutto il suo scritto si potrebbero rintracciare delle tracce che confermano questa idea. In primo luogo, la conoscenza, considerata proposizionalmente, si fonda sulla corrispondenza della credenza di una proposizione con un fatto. L’assunzione della presenza dei fatti è già stata mostrata. Le credenze sui fatti sono solamente delle proposizioni ritenute vere da un soggetto.

L’intera attività della guerra si sostanzia su credenze o su credenze giustificate e conoscenze. Già Sun Tzu osservava come la conoscenza della realtà determini la possibilità di prendere decisioni corrette e come senza di essa sia addirittura impensabile essere dei validi generali. Clausewitz mantiene la medesima attitudine, e precisa che in guerra l’elemento aleatorio è preponderante. In altre parole, le decisioni in condizioni di incertezza sono la maggioranza.

Sul versante epistemologico propriamente inteso, possiamo dire che in guerra la conoscenza è rara e i soggetti si formano più spesso credenze giustificate. Il problema fondamentale della guerra è, secondo Clausewitz, che le informazioni sui fatti arrivano al generale solo mediatamente e il generale stesso non è sempre in grado di comprenderne l’attendibilità; ciò perché le richieste di affidabilità di un’informazione sono ben più ampie che quelle usuali. Ad esempio, sapere l’ora in guerra può evitarci di morire per il fuoco della propria artiglieria; ma normalmente se un passante ci comunica l’orario sbagliato non temiamo di saltare in aria. Ecco che la necessità di avere informazioni esatte, cioè credenze vere, diventa evidente.

«Abbiamo visto quanto la natura oggettiva della guerra la renda un calcolo di probabilità. Per farne ora un gioco occorre soltanto un elemento che certamente non le manca: il caso. Non c’è attività umana che stia in contatto così costante e generale con il caso quanto la guerra. Ma con il caso prende grande spazio in essa l’incertezza e con essa la fortuna». (Clausewitz)

Illustrazione rappresentante una truppa Austriaca durante la I Guerra Mondiale, credits to Ipa-agency

In questo denso passo, nel quale si adombra la possibilità (poi negata) di paragonare la guerra ad un gioco a informazione incompleta (come poi può essere considerata con la recente game theory), si dice esplicitamente che la guerra si fonda su elementi intrinsecamente aleatori, sicché il metodo migliore per massimizzare la verità sulla falsità consiste nel seguire calcoli di probabilità.

Clausewitz non ci dice, naturalmente, di che tipo di teoria della probabilità ci dovremmo servire, ma probabilmente si tratta del modello bayesiano, laddove i generali devono attenersi alle proprie stime sulla probabilità degli eventi per trarne giudizio affidabile, cioè la formazione di una credenza la cui formazione è seguita ad una elaborazione che produce più verità che falsità.

«Per poter superare con successo questo scontro continuo con l’inatteso, sono indispensabili due qualità: un’intelligenza che anche in questa accresciuta oscurità è dotata di sprazzi di luce interiore che la conducono verso la verità…» (Clausewitz)

La verità è indispensabile per indirizzare il proprio agire, al fine di prendere decisioni corrette è necessario avere conoscenze vere, cioè sapere come stanno realmente le cose. Immaginiamo il generale chiamato a rispondere delle sue scelte. Se egli dicesse che aveva agito sulla base di informazioni altamente improbabili o nulle non saremmo disposti a condannarlo? Sicché si torna alla probabilità. Se un generale si scusa dicendo che sulla base di tutte le sue informazioni e sulla base di quanto egli sapeva aveva preso una determinata decisione, che gli pareva fondata sulle conseguenze più probabili delle sue credenze egli non sarebbe più condannabile. Dunque, la probabilità risulta indispensabile per massimizzare la verità sulla falsità.

«Poiché la molteplicità e i confini indeterminati di tutte le situazioni portano a prendere in considerazione una grande quantità di fattori, poiché la maggioranza di questi fattori possono essere valutati soltanto secondo le leggi della probabilità, se l’attore non coglie tutto questo con il colpo d’occhio di uno spirito che presagisce dovunque la verità, ne nasce un intrico di considerazioni e punti di vista da cui il giudizio potrebbe non tirarsi più fuori». (Clausewitz)

Uno dei quadri raffiguranti la battaglia di Solferino esposti nella sala del Parlamento italiano

L’oggetto è ancora più definito. Lo spirito del grande generale (subito dopo Clausewitz citerà Napoleone) deve “presagire dovunque la verità”, chiaramente perché, in caso contrario non avrebbe senso la ricerca stessa della buona azione militare. Si tirerebbe a indovinare, tanto più che il rischio è concreto: molto spesso, per indecisione, i generali vengono condotti a non agire per la paura di non essere sicuri di avere le informazioni corrette, come dimostra il caso del generale Mcclelland nella guerra di secessione americana.

Tale è la paura di non sapere come stanno le cose, che si preferisce non agire piuttosto che provocare perdite gravi al proprio schieramento. Clausewitz è chiaro in più di un’occasione su tale punto: i grandi intelletti, che valutano più fatti e condizioni, si lasciano spesso ottenebrare la mente dalla paura del rischio e finiscono per essere eccessivamente conservativi nella pratica.

Dal punto di vista dell’azione il rimedio è la propensione al rischio e l’audacia nelle condizioni di incertezza, correttivi caratteriali e motivazionali, non epistemici. Dal punto di vista epistemico (cioè quello che considera la prospettiva della conoscenza in relazione alla verità delle credenze), l’unica strada perseguibile è quella di fondare le proprie valutazioni unicamente sui sistemi per giungere a credenze più affidabili. Se permane il dubbio deve sopraggiungere il buon senso.

«Qui spesso non serve altro che un principio regolatore che, posto fuori dal pensiero, lo domina: è il principio dell’attenersi in tutti i casi dubbi all’opinione primitiva e non allontanarsi da essa sinché non vi si è costretti da un nuovo chiaro convincimento. Si deve rimanere saldi nel credere alla migliore verità di principi ben provati e in presenza della vivacità di fenomeni momentanei non dimenticare che la loro verità è di stampo inferiore». (Clausewitz)

Napoleone alla testa dell’esercito

Al fine di non mutare continuamente opinione in relazione ai fatti, è necessario non sopravvalutare le credenze con gradi inferiori di probabilità, ma mantenere salda la credenza prodotta da sistemi che garantiscano un grado ottimale di affidabilità. Bisogna, dunque, fidarsi delle proprie credenze fin quando non sopraggiungano delle credenze che le negano, tali che esse siano più affidabili delle altre.

L’oggetto della conoscenza è ben definito da Clausewitz: «con informazione designiamo la conoscenza complessiva che abbiamo del nemico e del suo territorio». Saper massimizzare la conoscenza del nemico è fondamentale per accrescere la nostra facoltà di comprendere la situazione, cioè di avere un insieme di credenze coerenti capaci di produrre nuove credenze, giustificate sulla base della loro formazione su processi cognitivi affidabili. Tale principio è rilevante poiché: «Una grande parte delle informazioni che si ottengono in guerra è contraddittoria, una parte ancora più grande è falsa e la parte di gran lunga maggiore è incerta», ribadisce Clausewitz nella sua opera.

Le informazioni sono inevitabilmente esasperate dall’immaginazione perché siamo ininterrottamente sottopressione e in pericolo di vita, pertanto il rischio di cedere alle credenze psicologicamente forti ma epistemologicamente non giustificate è molto alto: “Di regola si tende a credere più alla notizia cattiva che a quella buona; si tende a esagerare ciò che è negativo e i pericoli che in esso sono segnalati, anche se si dissolvono come le onde del mare: ma proprio come queste ultime i pericoli ricompaiono di nuovo ogni volta senza apparente motivo”.

Del resto, non è necessario aver preso parte a un conflitto per immaginare quanto la componente psicologica risulti decisiva per le decisioni da prendere in casi di incertezza, dato che vi sono approfonditi studi di psicologia cognitiva che attestano proprio il fatto che la paura generata dal rischio influenza in modo decisivo le credenze che abbiamo sul mondo e come queste siano spesso determinate in base alle aspettative e ai nostri desideri più che sui dati di fatto incontrovertibili.

E allora è necessario cercare di massimizzare le proprie conoscenze con il mero calcolo della probabilità su credenze a loro volta affidabili: “Quello che si può chiedere a un ufficiale è una certa capacità di discernimento che può essere data soltanto dalla conoscenza degli uomini e delle cose oltre che dal suo giudizio. Lo deve guidare la legge della probabilità”.

L’epistemologia contemporanea ha cercato di trovare le condizioni per definire la conoscenza. In ambito sociale, l’epistemologia indaga la distribuzione della conoscenza su reti sociali, siano esse istituzionali o orizzontali. Clausewitz nel suo scritto mostra di avere una sensibilità epistemologica e teorica sufficiente a far emergere entrambi gli aspetti. L’epistemologia individuale, dunque, lo vede un difensore dell’idea che il soggetto bellico (il generale) debba cercare di formarsi credenze giustificate mediante l’adozione di metodi di formazione di credenze affidabili (coerenza e probabilità su tutti gli altri). Sul piano dell’epistemologia sociale Clausewitz mostra che l’aspetto combinato delle informazioni individuali unite a quelle reperite da terzi sia essenziale.

Vogliamo qui evidenziare un punto che è molto importante per la guerra: le informazioni. Non parliamo di specifici, grandi, importanti rapporti informativi di base ma dell’innumerevole massa di piccoli contatti, in cui si muove quotidianamente con incertezza un esercito. La più piccola pattuglia, ogni posto di guardia, ogni ufficiale in missione con il loro bisogno di informazioni sul nemico e sull’amico sono affidati agli abitanti del Paese. Qui l’intesa con gli abitanti mette in generale il difensore in condizioni di superiorità rispetto all’occupante» (Clausewitz)

Raffaello, Battaglia di Ponte Milvio

In guerra i soggetti agenti si formano una quantità immensa di credenze che diffondono nello spazio sociale dell’esercito. Un esercito, secondo Clausewitz, non funzionerebbe diversamente da una società, essendolo a sua volta, di conseguenza produce continuamente credenze sul mondo che verranno immesse nello spazio sociale. La formazione di tali credenze è spontanea e impossibile da evitare. Il problema sta nel massimizzarne l’attendibilità: «Questo tatto del giudizio consiste inconstestabilmente in una sorta di confronto di tutti i dati per cui vengono accantonati quelli lontani e irrilevanti e fatti emergere i più vicini e importanti in modo più rapido di quanto non accadrebbe mediante rigorose deduzioni».

Per concludere possiamo tornare alla frase iniziale: in guerra non esistono interpretazioni, solo fatti. Clausewitz considera l’esistenza dei fatti come stati di cose indipendenti dalla mente del soggetto, che costituiscono l’oggetto stesso dell’indagine epistemica in chiave bellica. Per massimizzare la probabilità di prendere decisioni giuste è necessario fondare le proprie decisioni su credenze vere. In assenza di certezza è necessario utilizzare dei sistemi di formazione di credenze affidabili di primo livello (come direbbe Goldman) tali che esse poi passino al livello di elaborazione successivo (di secondo livello) la cui elaborazione aumenta il grado di affidabilità della credenza stessa. In presenza totale di incertezza l’unico correttivo è non formare una credenza alternativa a quella precedentemente assunta se non di fronte ad una opposta tale che il grado di affidabilità di quest’ultima sia maggiore della precedente.

Il generale prussiano ribadisce che solo un folle prenderebbe decisioni che prevedono la vita di un intero esercito sulla base di “interpretazioni”. Clausewitz è un realista, ritiene che esistano fatti oggettivi la cui conoscenza è alla portata dei generali. La stessa conoscenza non è mai negata, solamente non è sempre possibile ottenerla. Ma il problema non sta, allora, nell’idea di principio, sta nella possibilità di realizzarla ogni qual volta sia possibile.

L’obiettivo dell’analisi di Clausewitz è quello di rispondere al seguente interrogativo: «un conflitto fra forze viventi, come quello che nasce e si risolve nella guerra, può restare subordinato a leggi generali, e queste leggi possono servire di guida all’azione?». Questa materia, prosegue il generale prussiano, come tutte quelle che non oltrepassano la nostra facoltà di concezione, può essere illuminata dalle ricerche dello spirito e più o meno discriminata nei suoi intimi rapporti; il che basta già per costituire fondamento di una teoria.

Come appare evidente l’analisi di Clausewitz si pone su un duplice livello: da un lato, indagare i principi generali della guerra; dall’altro, formulare una teoria della conoscenza che permetta di scoprire questi principi. E questo è ciò che si è soliti definire epistemologia.