L’indicibile: la ragione e l’amore secondo Platone
La ragione non dice la verità. Partiamo da questo. Quando ciascuno di noi dice e pensa, questi dice e pensa come Platone ci ha insegnato. Stando al suo pensiero, la ragione si fonda su due principi logici fondamentali: il principio di non-contraddizione e il principio di causalità. Il primo ci dice che un qualcosa (A) non può essere se stesso e il suo contrario (non A), ossia A e non A non possono essere veri allo stesso tempo. Il secondo ci dice che tutto ha una causa. Possono apparire principi sciocchi e Platone tanto grande solo per essere stato il primo a indicarli. Eppure, tanto sempliciotti non sono: se ne coglie la fondamentale importanza soltanto se intesi a fondo. Il principio di non-contraddizione ci dice che una cosa non può essere altro che se stessa: impugnando questo coltello, allora, nessuno di voi intorno a me dovrebbe allontanarsi sgomento o turbato; questo perché crederà che io lo stia impugnando secondo la definizione ‘razionale’ — propria a questa situazione — di coltello. Nessuno, ovvero, dovrà pensare che abbia l’intenzione di utilizzarlo come arma bellica. Ecco perché la ragione non dice la verità: si cade agevolmente nel tranello di ritenere i due principi logici verità assolute, su cui è stupido dubitare. Essi, invece, altro non sono che costruzioni arbitrarie su cui fondiamo — ripeto — arbitrariamente il nostro pensare e, quindi, vivere. La ragione non dice la verità: la ragione definisce, ‘finisce’ le cose entro una definizione, le chiude in un solo significato. Essa, dunque, ordina e imposta schemi al fine di permettere la convivenza sociale, che significa la convivenza tra un individuo e l’altro (come nel caso del coltello), ma anche tra un individuo e se stesso. Viviamo con noi stessi soltanto per mezzo di schemi e ordini mentali, su cui va a fondarsi la nostra persona. Ma tali ordini non sono veri di per sé, sono bensì costruzioni arbitrarie.

Ebbene, Platone non è soltanto il filosofo che per primo ha indicato la struttura razionale: egli è il ‘filosofo delle idee’, lo sanno tutti, no? Esiste un’essenza, e ogni uomo può intuirne l’esistenza quando percepisce un qualcosa d’indicibile. Nel “Simposio” Platone cattura la natura dell’amore nella sua indicibilità. Gli amanti vogliono stare sempre insieme perché vogliono che l’altro dica loro qualcosa, ma non sanno cosa. Non sanno cosa veramente dire perché l’amore è nel silenzio, in qualcosa che non può realmente essere comunicato tramite il linguaggio. Platone parla dell’amore, poi, come di qualcosa di mezzo tra divini e umani, tra Dèi — ‘folli’ — e uomini — ‘razionali’. Gli umani sono razionali perché concepiscono il mondo secondo definizioni chiuse (e si ripensi al principio di non-contraddizione): ‘questo è giusto e quest’altro è sbagliato’. Gli Dèi sono folli perché conciliano gli opposti, disconoscono persino il principio d’identità: Dioniso è androgino, Zeus è fulmine e toro, nonché re degli dei. Dato che gli uomini vengono dagli Dèi, l’amore, in qualche modo, diviene punto d’incontro tra i due mondi e simbolo di tale origine. Gli amanti, al pari dei poeti, sono folli.
“Blood Bank”: il segreto che non si può spiegare

I nostri sono i tempi del sentimento. Ciò che è arte — si pensa — lo è perché caricato di un senso di emozione. A dimostrazione di ciò sta il ritorno a generi musicali quali l’Indie, il Folk, l’Alternative, tutti in qualche modo diretti a propagare un tono poetico — leggero o pesante che sia. L’emozione dell’opera d’arte, allora, non è qualcosa che esiste in essa di per sé, in qualche forma si direbbe ‘essenziale’: siamo noi, spettatori inconsapevoli, ad infonderla. Si potrebbe persino dire che è questo stesso processo di inglobamento a costituire, ad essere arte. L’arte diventa nient’altro che sentimento. Ne esistono, poi, tantissimi di sentimenti. Ad alcuni di loro abbiamo dato dei nomi, li abbiamo, ovvero, riassunti in una serie di lettere in successione: amicizia, affetto, disgusto, invidia, piacere, amore. Dell’amore ne tratta “Blood Bank”, EP (Extended Play) dei Bon Iver, registrata e pubblicata nel 2009.

I versi, scritti da Justin Vernon, si comportano come immagini. Si vedono, quasi: la neve che cade e intanto si scioglie. La poesia si mescola al colore del sangue, passionale e insieme misterioso (come suggeriscono i primi versi), nel cogliere qualcosa — sì — di corporale, ma anche di tanto profondo da risultare inesprimibile con parola alcuna: propriamente indicibile. L’ultima neve, ormai, sta per sciogliersi: il momento è crepuscolare, ovvero di transizione e passaggio, perciò magico e incerto, inafferrabile. In questo modo i Bon Iver tentato l’impossibile: di comunicare, con le parole e le note di una canzone, l’incomunicabile, di esprimere ciò che essi stessi dicono inspiegabile.
Wittgenstein: c’è qualcosa oltre il linguaggio
“Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.”
Con queste parole, che costituiscono la settima e ultima proposizione del “Tractatus logico-philosophicus” di Ludwig Wittgenstein (1921), egli svela un aspetto fondamentale del proprio pensiero. C’è qualcosa che va oltre il linguaggio, qualcosa che non può essere detto con nessuna parola, e questo, in verità, come afferma lui stesso, è ciò che c’è di più bello. Come Platone indicava la grandezza dell’uomo in ciò che trascende i limiti imposti dalla ragione — cioè nella follia, anche Wittgenstein compie un’azione analoga. Questi parte dalla presa di coscienza, che era riuscito a maturare soltanto in seguito, che il linguaggio è esclusivamente un fatto sociale. E lo comprende tramite il seguente ragionamento: se il linguaggio è una creazione arbitraria, puramente convenzionale, nata con l’uomo e con esso evoluta nel tempo, come lo si impara? Come impara, un bambino, le regole del linguaggio? Le impara come può imparare le regole di un gioco: ovvero sperimentando. Non è vero né realistico che le possa assimilare perché qualcuno, in linea esclusivamente teorica, gliele ha impartite in precedenza. Impara, nel vero senso del termine, soltanto mettendole in pratica. Quando ha veramente (e sostanzialmente) imparato le regole del linguaggio, quest’ultimo è suo, annodato a lui intimamente. Se il linguaggio lo si impara solo ‘con gli altri’, il linguaggio è solo sociale. Esso è utile all’uomo affinché possa porsi su di un piano pari a ogni altro: gli uomini sono così in grado di comunicare allo stesso modo e vivere insieme.

Ora, assecondando il gioco di parole, pensate a quando pensate. Quando pensate, lo fate utilizzando il linguaggio stesso: ciò, alle volte, vi fa percepire come una sensazione di ingabbiamento, e il linguaggio come una costrizione tramite cui rendere ‘materialmente’ possibili i vostri pensieri. Ma tali pensieri li state ‘capendo’ con le stesse parole che usate per comunicare con gli altri. In altre parole (eh già… ancora ‘parole’), se il linguaggio è esclusivamente sociale, non esiste un linguaggio privato, un linguaggio per sé. Ed è un paradosso: alla base delle relazioni con gli altri c’è un’essenza d’incomunicabilità. L’archè è l’indicibile.
Giovanni Lorenzetti