Artisti maledetti: Charles Baudelaire e Janis Joplin, vite di vizi e di eccessi

Un focus sulle personalità di Charles Baudelaire, capofila dei poètes maudits, e Janis Joplin, carisma sconvolgente e voce graffiante, vittima della maledizione dei ventisette.

artisti maledetti

Charles Baudelaire, il poeta maledetto tra Spleen e Ideale

Siamo a Parigi, anno 1821, da una rinomata famiglia borghese nasce Charles Baudelaire. Vittima, purtroppo, di un sistema fortemente classista, il giovane fu presto indirizzato verso una ferrea educazione, ma Charles non era come gli altri. Fin da subito mostrò i primi segni di sregolatezza, tanto che la sua famiglia fu costretta a mandarlo via da Parigi, molto lontano, in India, con la speranza che il viaggio lo cambiasse e lo rimettesse sulla retta via. Vi rimase per circa un anno, ma il richiamo parigino era troppo forte, tanto che decide ben presto di tornare in terra natia. L’impatto con la civiltà orientale ebbe effetti del tutto diversi da quelli sperati: Baudelaire cominciò a fare uso di droghe e alcol, che lo portarono a vivere in modo stentato e a combattere continuamente con condizioni precarie di salute. Visse la maggior parte della sua breve vita in condizioni di estrema povertà, provava di tanto in tanto a vendere le sue opere in modo da arrotondare ed avere qualche spicciolo per soddisfare i suoi infiniti vizi. Le condizioni del maledetto peggiorarono verso un punto di non ritorno, fino a paralizzarlo completamente. Morì il 31 Agosto del 1869 a Parigi. Vero simbolo della difficoltà del vivere per la sua continua interiore lotta tra luce e tenebre o, per meglio dire, tra Spleen e Ideale, riuscì a cogliere in modo magistrale la complessità del proprio io che, se davvero vogliamo guardarci dentro, non è poi tanto dissimile dal nostro. In inglese, letteralmente spleen significa milza e deriva dal greco splēn, di medesimo significato, ma collegato al concetto di malinconia e tristezza in seguito alla formulazione teoria degli umori, concepita da Ippocrate per dare una spiegazione eziologica alle malattie e alla personalità dell’uomo. Partendo dalla teoria dei quattro elementi fondamentali (aria, acqua, fuoco e terra), Ippocrate definì l’esistenza di quattro umori base, legati a quattro elementi del corpo umano e corrispondenti a quattro temperamenti: fra questi vi era il malinconico (o melanconico) collegato all’umore della bile nera, con sede nella milza e legato all’elemento terra. Questo concetto di uno specifico stato d’animo derivante dalla milza, fu ripreso in ambito artistico, inizialmente nella letteratura Romantica inglese e tedesca ed in seguito proprio da Baudelaire, che lo rese famoso intitolando Spleen e Ideale la prima sezione della sua famosa opera poetica I Fiori del Male, anticipando i temi che sarebbero stati alla base del Decadentismo, adottati dai poeti francesi e da numerosi pittori di varie correnti, come ad esempio i simbolisti. Ma lo spleen decadente, nella produzione francese specificatamente, significava molto di più che tristezza e malinconia, esso celava una profonda tristezza meditativa, un’angoscia esistenziale, il cosiddetto mal de vivre. Dovuto alla natura particolarmente sensibile dell’artista, lo spleen identificava un malessere intenso, un forte disagio esistenziale, l’incapacità di adeguamento al mondo reale, uno stato di depressione cupa, angosciosa, dalla quale sarebbe stato impossibile sfuggire e che avrebbe potuto portare alla disperazione e all’istinto di morte, uno stato di astenia morale giustificato dal tempo che passava inesorabile, dalla solitudine, dalla nostalgia, da sentimenti d’impotenza e di sopraffazione, dal senso di colpa e dalla noia.

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Georges-Antoine Rochegrosse (pittore francese 1859–1938) e Eugène Decisy (incisore francese) – Charles Baudelaire, 1917 (Ritratto del poeta circondato da fantasmi) – Incisione su legno

Questo degradante stato psichico ispirava gli artisti, che addirittura vi si compiacevano e che venivano spinti a cercare l’Ideale, cioè l’amplificazione delle loro facoltà artistiche e compositive e l’estasi mentale che li avrebbe uniti al tutto e fatti entrare in contatto con l’assoluto. L’intento era quello di elevarsi ad un piano intellettuale, sensoriale e spirituale superiore e di esaltare la propria creatività e personalità tramite ineffabili, segrete corrispondenze tra oggetti, profumi ed elementi della natura. Spleen e Ideale, sofferti stati d’animo, grandi fonti d’ispirazione venivano quindi perseguiti ed ottenuti dagli artisti attraverso la loro forte, innata sensibilità, ma anche per mezzo di alcool, assenzio e droghe come l’oppio e l’hashish, i cosiddetti paradisi artificiali (dal titolo del saggio sugli effetti delle droghe di Charles Baudelaire) che permettevano di abbandonarsi completamente, liberare la mente, sperimentare sensazioni come la scomparsa del tempo o le sinestesie create tra suoni, colori e profumi. Al livello artistico, tutto questo si traduceva con opere d’arte incomparabili, riflesso del vissuto personale degli autori, dei turbamenti delle agitazioni della gioventù dell’epoca.

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La poesia fa parte della raccolta I fiori del male (1851) ed è inserita proprio nella sezione Spleen et Idéal, di seguito il testo tradotto in italiano:

Spesso, per divertirsi, i marinai
Prendono degli albatri, grandi uccelli di mare
che seguono, compagni indolenti di viaggio,
le navi in volo sugli abissi amari.

L’hanno appena posato sulla tolda
e già il re dell’azzurro, goffo e vergognoso,
pietosamente accanto a sé strascina
come fossero remi le ali grandi e bianche.

Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato!
E comico e brutto, lui prima così bello!
Chi gli mette una pipa sotto il becco,
chi zoppicando, fa il verso allo storpio che volava!

Il poeta è come lui, principe dei nembi
Che sta con l’uragano e ride degli arcieri;
fra le grida di scherno esule in terra,
con le sue ali da gigante non riesce a camminare.

Emergono dell’albatro due immagini contrapposte, evidenziate dalle antitesi: in volo è un re dalle grandi ali, che si fa beffe dell’arciere, mentre sulla tolda della nave le sue grandi ali gli sono d’impaccio, appare goffo e viene ridicolizzato dall’equipaggio. La quarta strofa rende esplicita la rappresentazione simbolica del poeta, attraverso una similitudine e una metafora iperbolica (prince des nuées, v. 13; ailes de géant, v. 16). La vita dell’albatro, esiliato dagli uomini, è una parabola che definisce l’esistenza del poeta: il viaggiatore alato rappresenta il poeta e l’equipaggio rappresenta la folla degli uomini che non lo comprende, che lo ridicolizza e lo emargina. Nel momento della creazione artistica il poeta è un essere superiore, mentre nella quotidianità, a contatto con gli altri uomini è un inetto, un estraneo, impacciato e goffo, incompreso da tutti. In una società che ha come valori l’utile, l’interesse, la produttività, il calcolo economico e il senso pratico, che trasforma l’opera d’arte in merce, l’artista creatore di bellezza appare come inadatto alla vita comune. La società, considerandolo un essere inutile e improduttivo, lo priva del prestigio quasi sacrale di cui dovrebbe godere, relegandolo ai margini, guardandolo con scherno e ridicolizzandolo. L’artista si percepisce come un reietto e un maledetto, ma rivendica la propria diversità come segno di superiorità e nobiltà. Rifiuta il mondo che non lo comprende e si isola dalla società, disprezzando la gretta mediocrità borghese. Baudelaire ci rimanda a una visione del vivere aspra e complessa, ma solo fino a quando si resta schiacciati dal peso della condizione umana. L’albatros è un volatile apparentemente grossolano e goffo finché non riesce a spiegare le sua enormi ali: allora con un’abilità che gli è innata, sfrutta i forti venti e le tempeste per scivolare in alto e assumere una diversa prospettiva dell’esistenza e della realtà, meno stringente e più vasta.

Janis Joplin, la maledizione dei ventisette

Port Arthur, Texas, 19 gennaio 1943, nasce Janis Joplin. Paesino pieno di pregiudizi, Janis non amò mai Port Arthur così come qualcuno ama il posto in cui è nato, né mai sentì il Texas come la sua patria. Quella terra aveva lasciato dentro di lei un solco profondo, iniziandola ad una precoce cognizione del dolore. La sua vita ne uscì spaccata, lacerata, incoerente, ma piena di una forza devastante che lei riusciva a coordinare e trasmettere solo quando cantava, dovunque, non necessariamente davanti ad un pubblico, stessa spinta all’improvvisazione, stessa voce ruvida che stravolge le parole e le carica di significati. Era carta vetrata, implorazione disperata, cosmica richiesta di affetti e di approvazioni, certezza di delusioni, di difficoltà di vivere. La Joplin ha iniziato ad ottenere notorietà intorno alla fine degli anni ’60 lavorando con la band dei Big Brother e, in seguito a successive collaborazioni, dedicandosi a progetti da solista. Per la cronaca, la Joplin morì a causa di un’overdose da eroina, abbandonata, in un momento di sconforto e terribilmente fragile, in una stanza d’hotel di Los Angeles. Fu un momento di debolezza, un episodio isolato rispetto ai mesi precedenti, durante i quali non aveva fatto uso di droghe. Eppure, il cedimento le fu fatale, cosicché anche lei si annovera tra le anime della musica del club dei 27. A spiccare particolarmente sono sempre state le sue doti interpretative e la sua forte espressività, motivo per cui i suoi concerti erano quasi sempre tenuti su palchi scarni, su cui facevano mostra di sé le pile di amplificatori e gli scarsi giochi di luce, tant’è che spesso le esibizioni si tenevano di giorno. Sono tutti aspetti che sono via via entrati nell’estetizzazione e nell’identificazione dell’immagine di un’artista, per così dire, maledetta, svincolata apparentemente dalla commercializzazione della propria arte, dedita ad uno stile di vita improntato sull’edonismo e sul piacere dei vizi, dedita alla propria arte come espressione di un’identità sregolata. Presto Janis divenne un’icona, al punto che, per il suo stile rabbioso e crudo Vogue la saluta come innovatrice stilistica: la sua energia era innegabilmente potente e diffondeva intorno a lei un alone di elettricità, ogni più piccolo segno di debolezza (fantasma costante nella vita della cantante) o sottomissione a qualunque cosa sarebbe risultata prettamente umana, veniva nascosto dai suoi modi imperativi e dalla sua presenza sfacciata, grezza, trasudante di sfida e sensualità. Ma Janis Joplin fu un’anima tanto ribelle quanto fragile. Senza neppure rendersene conto bruciò le tappe, in pochi anni divenne il simbolo di chi veniva additato come diverso, pulito come lei, di quei giovani che a Woodstock sognavano di cambiare il mondo.

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Janis Joplin

Una delle leggi più atroci che tirano i fili della psiche umana esige che le vittime infliggano a loro volta ad altri ciò che hanno subito. Janis Joplin non fa eccezione: non appena inizia la sua effettiva ascesa, dopo anni passati ad essere bullizzata in ogni modo, inizia a restituire favori. Rende i suoi amici dipendenti dall’eroina per tenerli in pugno, pensa di poter manipolare e sostituire le persone nella sua vita come se fossero oggetti. Janis, ad ogni modo, resta vittima degli eventi. Love, Janis. Si firmava sempre con questa sigla alla fine delle lettere che spediva alla sua famiglia e ai suoi amici lontani, scriveva semplicemente così, con affetto, con amore. E fondamentalmente si nutriva di una sconcertante carica emotiva, nonostante il disagio che sentiva nel proprio animo e nonostante il male che facesse a se stessa, in ciò a cui si dedicava e nei confronti delle persone a cui si rivolgeva. Paradossalmente, è come se Janis Joplin fosse incapace di graffiare permanentemente chi la circondava, perché, in un certo senso, finiva per graffiare se stessa, assumendo in sé i disagi di un’epoca come la sua. E’ stata un’artista bianca con la voce da nera. È stata l’artista incapace di restare sola troppo a lungo, alla disperata ricerca di One good man, nonostante lo stile di vita sregolato ed effimero. È stata l’artista dalla voce vibrante, delle note musicali dal più profondo del cuore, delle esibizioni ad occhi chiusi. Il paradigma di Janis ci ha insegnato molto. Il sesso, la droga, il rock ‘n’ roll, come tutte le cose, sono destinati infine a generare nausea. Più sofferenza riceviamo, più sofferenza siamo pronti a restituire. Più sofferenza restituiamo, più la nostra sofferenza personale aumenta. E proprio da questo cerchio piatto nasce l’arte. Janis Joplin canta di ciò che conosce più a fondo, rifiuto, abbandono, solitudine, tristezza incurabile. La musica è stata la sua più grande verità, la più sincera convinzione e ne diede costantemente prova. La sua anima era fragile, eppure la musica era in grado di salvarla. Il soul, il blues, il rock, le sue affinità musicali, le hanno dato tutto. Tutto, tranne il tempo.

Valeria Parisi

 

 

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