Confrontiamo le proposte del governo Meloni in materia di migrazione con le filosofie politiche open- e closed-borders.
Tra le promesse che hanno portato l’attuale governo a vincere le elezioni un anno fa c’è sicuramente la lotta all’immigrazione, definita sempre “clandestina” da chi ci governa. La Destra italiana ha acquistato sempre più potere anche grazie alla formulazione di proposte concrete contro lo sbarco di migranti nel Bel Paese, conquistando il voto degli elettori specialmente nel Sud Italia, nelle regioni maggiormente interessate dal fenomeno migratorio. Ma come si sta comportando il governo Meloni riguardo al tema?
All’ordine del giorno
Occupati gli scranni, non si è esitato nemmeno un secondo a prendere decisioni al riguardo, da un lato attraverso l’attuazione di decreti, dall’altro chiedendo maggiore solidarietà da parte dell’Europa. In effetti, questo è quello che gli italiani si aspettavano facesse la nostra Premier, dal momento che il più agguerrito detrattore di queste battaglie è stato, negli anni scorsi, proprio il suo vice, Matteo Salvini!
Eppure, quest’ultimo si guarda bene dal dire direttamente la sua in merito (eccetto rarissimi casi), ben memore degli errori del passato che lo hanno recentemente portato a processo. Nel 2019, infatti, ricoprendo la carica di Ministro dell’Interno, lasciò ben 147 persone sulla nave della Ong Open Arms in mare per una ventina di giorni, proibendone lo sbarco.
La Meloni, però, sa come guardare al passato per farne tesoro e, poiché consapevole che ogni errore è fatale per una donna che si accinga per la prima volta a ricoprire la carica di Primo Ministro, tenta le trattative, agisce diplomaticamente e, scaltra quanto premurosa, ricerca l’accordo con l’Europa e col Capo del Governo.
Prova della capacità mediatrice della Premier sono i tre decreti-legge approvati, a partire dal cosiddetto “decreto Cutro”, passando per quello che aumenta la permanenza dei centri di rimpatrio da 3 a 18 mesi, per finire con l’ultimo in cui si tenta di stanare i falsi minori. Un’ossessione per i rimpatri, insomma, che procede al grido della massima per cui “bisogna aiutarli a casa loro”.
Un successo innegabile anche sul fronte di una politica europea compatta, di cui prova tangibile è il patto a 6 con Gran Bretagna, Francia, Albania, Olanda e Commissione Ue, conclusione di una serie di alleanze internazionali che hanno lo scopo di limitare le partenze. Un finale da fiaba se si pensa alla caccia agli scafisti “per tutto il globo terracqueo” annunciata il 26 Febbraio, dopo che le statistiche riguardanti l’aumento degli sbarchi e il malcontento degli alleati aveva spinto la Meloni a riconsiderare il proprio ruolo, ma, soprattutto, le ragioni per cui tanta parte dell’Italia l’aveva votata.
Una Meloni un po’ filosofa
Giorgia Meloni è, senza ragion di dubbio, un’abile stratega, ma bisogna ammettere che un velo di filosofia si annida sempre nei suoi discorsi. Non perché lei lo voglia, ma perché il suo mestiere lo richiede. Ogni sua scelta viene generalmente sistematizzata dalla filosofia politica, che si occupa di definire le ragioni di fondo e le motivazioni storiche di alcuni dei capisaldi della politica.
Questa disciplina si è occupata, tra le altre cose, anche di studiare e di mettere a fuoco questioni relative alla migrazione, intesa come fenomeno umano da sempre presente nella storia della nostra specie. Si tende generalmente a dividere, almeno in un primo momento, tra posizioni open- e closed-borders, di cui le prime incoraggiano l’apertura delle frontiere ad ogni tipo di profugo, mentre le seconde sostengono le ragioni per cui ogni Stato sovrano avrebbe diritto a chiudere e proteggere i propri confini dall’esterno.
La politica italiana incarna a pieno questi ideali secondo una netta spaccatura tra Sinistra e Destra e, data la rilevanza che il tema acquisisce per la nazione, quantomeno per ragioni geografiche, è raro trovare posizioni intermedie o qualche esponente politico che sia puramente estraneo alla questione o decida, per partito preso, di non dire nulla a riguardo.
Le posizioni intermedie sono, infatti, quelle che ammettono la possibilità di creare dei criteri che regolino l’accettazione di migranti nel Paese di arrivo. Tali criteri sono proposti e studiati considerando la necessità di evitare disuguaglianze nel caso di una loro eventuale applicazione nella realtà. In Italia esse sono rare e fanno generalmente leva sulla differenza, terminologica e intuitiva, tra rifugiato e migrante, presente e rilevante anche nei global justice studies.
Aprire o chiudere le frontiere?
I cosiddetti global justice studies si occupano, innanzitutto, di chiarire come posizioni open- e closed-borders possano essere giustificate a livello teorico. Le prime, che rispecchiano più generalmente gli ideali della Sinistra italiana (senza intercedere, però, in quella dolceamara dose di paternalismo che la contraddistingue), proposte da teorici quali Joseph Carens, fanno leva sul diritto alla libertà di movimento sancito dai numerosi trattati internazionali. Infatti, nonostante svariate convenzioni sottoscritte da un vasto numero di Paesi, tra cui l’Italia, affermino un generale diritto alla migrazione, questo non è, nella realtà dei fatti, garantito da tutti i firmatari.
Le seconde, invece, tanto care al governo Meloni, si rifanno alle idee di Michael Walzer e tentano di far valere il principio di autodeterminazione degli Stati a discapito della libertà dei singoli. Secondo costoro, infatti, ogni Stato, in quanto provvisto di confini e frontiere avrebbe il diritto di attuare il tipo di politiche che preferisce, in quanto specchio dei valori e delle scelte della nazione.
Data la radicalità di tale punto di vista, che potrebbe portare persino alla totale chiusura di un Paese alla realtà internazionale, si sono, col tempo, formate delle cosiddette teorie “no-borders“. Generalmente di matrice marxista, queste rivendicano la possibilità di eliminare ogni tipo di confine geografico. La ragione è che queste barriere sono, in realtà, in sé stesse ingiuste, perché generano divisioni e ineguaglianze, che potrebbero essere abolite se procedessimo all’eliminazione di ogni frattura politica e geografica.
Queste teorie ci mostrano la possibilità teorica (e si spera pratica) di vivere in un mondo in cui l’umanità abita uno stesso pianeta e se ne prende cura congiuntamente, in cui ogni uomo tende la mano all’altro uomo e se questo sta affogando in mare o sta scappando da una guerra, gli apre la porta di casa. Il loro limite è, d’altra parte, il fatto di essere utopiche. Ognuno, privato dei propri confini, perde la propria identità e se si sente spoglio se non porta i panni della propria cultura.
Se è, dunque, impossibile cancellare su ogni cartina i confini come se fossero disegnati a matita, non ci si può aspettare altro se non una situazione come l’attuale, in cui gli Stati più vicini alle zone di conflitto o alle aree di povertà estrema diventano enormi centri di accoglienza, che fanno ad arena per politici e pensatori che si cimentano per giustificare le ragioni per cui valga la pena accogliere o rigettare chiunque si affacci alla frontiera.
Non solo non si può pretendere altrimenti, ma non si può nemmeno considerare assurda o imprevedibile una situazione come quella italiana, in cui il Pd e il centro-Sinistra lottano per far valere dei diritti umani senza avere alcuna risorsa per garantirli e l’altro lato della barricata continua a ribattere che il problema è nel Sud del mondo senza stanziare un singolo centesimo per gli aiuti e pregando silenziosamente che muoiano tutti presto, inghiottiti in quel dolce lago che è il Mediterraneo.