Vivere senza risposte: Cesare Pavese e Italo Svevo indagano l’inquietudine dell’animo moderno

Pavese e Svevo, nell’intreccio tra psiche e destino, indagano il disagio esistenziale, riflettendo sul dramma di vivere nel mondo moderno.

Cesare Pavese e Italo Svevo rappresentano due voci emblematiche della letteratura italiana del Novecento, accomunate da una profonda riflessione sull’esistenza. Ne Il mestiere di vivere e La coscienza di Zeno, entrambi gli autori esplorano, seppur da prospettive differenti, il dramma interiore e il tentativo di comprendersi, illuminando l’essenza più cupa e profonda della condizione umana.

L’incontro con il disagio esistenziale

In Pavese e Svevo si percepisce un continuo dissidio interiore, una tensione irrisolvibile verso un mondo che appare estraneo e minaccioso. Pavese, attraverso le pagine de Il mestiere di vivere, si mostra prigioniero di una sorta di desolazione cosmica: ogni tentativo di spiegare o dare ordine al mondo risulta vano, mentre si avverte il peso dell’ineluttabile. La sua ricerca di senso è dolorosa e tormentata, come un incessante scavare nel profondo della propria anima per poi accorgersi che non vi è nulla di stabile o salvifico da afferrare. Allo stesso modo, ne La coscienza di Zeno, Svevo presenta un protagonista incapace di connettersi veramente con la vita, intrappolato in un’esistenza fatta di autoinganni e vani tentativi di guarigione. Zeno Cosini è afflitto da una “malattia” che si rivela metafora di un malessere più vasto, dove l’alienazione e la mancanza di autentici legami umani generano una coscienza frantumata, mai in pace con se stessa. Nei due autori, l’esistenza è una lotta senza vittoria, una condizione di sofferenza che si nutre della propria inutilità.

La psiche come teatro di conflitti

Entrambi gli scrittori vedono nell’autoanalisi un’arma a doppio taglio: se da una parte essa promette una maggiore comprensione di sé, dall’altra diviene il principale strumento di autodistruzione. Pavese, nel suo diario, si interroga incessantemente sulla propria identità e sulla natura del desiderio umano, sprofondando nei meandri di una psiche che non può essere lenita. Questo scavare nel proprio dolore appare loro necessario, ma mai liberatorio. Allo stesso modo, Svevo descrive la psiche di Zeno come una continua oscillazione tra consapevolezza e autoillusione, quasi a voler dimostrare che la conoscenza di sé non porta alla salvezza, bensì a un più profondo spaesamento. La psiche diviene allora una scena tragica, un luogo in cui i protagonisti si trovano a dover fare i conti con il proprio fallimento, con una coscienza infelice incapace di darsi pace. Sia Pavese che Svevo trasformano l’introspezione in un atto lacerante, un viaggio senza ritorno verso l’abisso della propria anima, in cui ogni tentativo di riscatto è destinato a naufragare.

L’ineluttabilità del destino e il dramma dell’incompiutezza

Il destino, ne Il mestiere di vivere come ne La coscienza di Zeno, assume la forma di una condanna inevitabile, di un peso che grava sull’esistenza e la rende soffocante. Pavese è ossessionato dalla fatalità della vita e dalla sua sostanziale incomprensibilità: l’uomo è condannato a vivere in un mondo che non è fatto per lui, in cui ogni tentativo di senso si rivela vano. Questa è la tragedia che lo accompagna, e che lo conduce infine a un’estrema rinuncia. Svevo, dal canto suo, racconta il destino di Zeno come una serie di occasioni mancate, di tentativi falliti e di perpetui ripensamenti. Zeno Cosini è l’uomo che non riesce mai a compiersi, che non sa mai veramente cosa desidera, un antieroe la cui esistenza si risolve in una serie di rimpianti. Entrambi i protagonisti vivono sotto il peso di un destino implacabile, che li condanna a una vita di incompletezza e di amara consapevolezza. Ne Il mestiere di vivere e ne La coscienza di Zeno, il destino si configura non come un traguardo da raggiungere, ma come una spirale discendente in cui l’individuo, privato di ogni certezza, si dibatte inutilmente. In questo modo, Pavese e Svevo descrivono il vivere come un mestiere ingrato e doloroso, un dramma in cui l’essere umano si trova abbandonato alla propria finitezza e condannato a non trovare mai pace.

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