Come il teatro è diventato un servizio pubblico: scopriamo il suo ruolo negli anni ’40

Nel secondo dopoguerra, Paolo Grassi tenta di riportare in auge il teatro italiano ma il mercato economico è troppo restrittivo.  

Nel secondo dopoguerra l’intera nazione italiana cerca di cucire le sanguinose ferite belliche, votando per una nuova forma di governo e lavorando per risollevare l’economia del paese. Ma non manca la volontà di autodeterminarsi in senso artistico e politico!

Teatro pubblico servizio

Molte nazioni europee, nel secondo dopoguerra, hanno messo l’esperienza educativa e sociale del Teatro alla pari di altre risorse pubbliche, andando a considerare “primario” un lavoro che, pur fondato su costi economici elevati, si ritiene offra un bene immateriale che difficilmente rientra nelle logiche di mercato.

In questo senso, fu radicale la voce di Paolo Grassi. Il 25 aprile 1946 pubblica su “Avanti!” la sua considerazione di Teatro come un pubblico servizio:

Ragioni culturali ma soprattutto ragioni economiche tengono lontano il popolo del teatro, mentre il teatro, per la sua intrinseca sostanza, è fra le attività la più idonea a parlare direttamente al cuore e alla sensibilità della collettività, mentre il teatro è il miglior strumento di elevazione spirituale e di educazione culturale a disposizione della società.

Queste parole si concretizzarono all’apertura del Piccolo Teatro della città di Milano il 14 maggio del 1947, il primo teatro a gestione pubblica, ossia con diritto al finanziamento pubblico. Da questo momento nelle varie città italiane prospereranno aperture di teatri stabili, finanziati dalle rispettive amministrazioni municipali che, però, permetteranno una breve durata; mentre le città di Genova, Bolzano, Trieste e Torino riusciranno a inserirsi a lungo termine.

Un sistema destinato a fallire

Nell’arco di qualche decennio, mentre gli altri settori arrivano al boom economico degli anni Sessanta, il campo teatrale è ancora dipendente di un modello economico arcaico portando a risultati che registrano costi esorbitanti per le nuove tecnologie utilizzate per la messa in scena e andando, allo stesso tempo, a sminuire la qualità lavorativa di attori e operatori del settore. Si passa così dall’idea di Teatro pubblico servizio in cui lo Stato permette l’attività teatrale attraverso costi accessibili, alla necessità di intervento della mano pubblica.

Il sistema di finanziamento per il settore teatrale, dai tempi del fascismo, è stato quello attraverso le sovvenzioni. Un sistema che Andreotti conserva nel Decreto Legge 20 febbraio 1948, n.62 Disposizioni a favore del teatro e stabilì che: il 6% dell’utile derivato dalla tassa sugli spettacoli e sulle scommesse, avrebbe costituito il fondo annuale allo spettacolo; due terzi di questo fondo sarebbero destinati alle manifestazioni musicali e un terzo al teatro di prosa.

Negli anni successivi il disinteresse al Teatro come pubblico servizio cala ancora di più: si distribuivano le risorse attraverso la logica dei tagli lineari, divenuta poi pratica diffusa in tutto il comparto pubblico. Sino ad arrivare a richiedere un disegno programmatico del teatro italiano in modo da avere maggiore presenza dello Stato, non solo in termini finanziari, ma attraverso una vera politica culturale.

Decentramento

Continuavano ad essere approvate leggi per il cinema, la musica e il circo, mentre i teatranti, alla fine degli anni Sessanta, iniziarono ad occupare Le Cantine: si trattava di spazi sotterranei come magazzini, scantinati o garage, che con pochi spicci per l’affitto permettevano di riadattare una sala teatrale per effettuare progetti creativi alternativi. Inizia così il fenomeno del Decentramento in cui i teatranti si spostano in questi nuovi spazi privati e, attraverso la forma giuridica della cooperativa a responsabilità limitata, trovano un modo per poter far Teatro in modo democratico e riconosciuto dallo Stato solo nel 1972.

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