Siddhartha di Hermann Hesse e l’Alcibiade Primo di Platone: quando narrativa e filosofia si incontrano per parlare all’individuo.
Questa quarantena ci ha messo di fronte alla persona con cui abbiamo meno a che fare in assoluto: noi stessi.
La ricerca di un significato
«In verità, nessuna cosa al mondo ha occupato tanto i miei pensieri come questo mio Io, questo enigma che io vivo, d’essere uno, distinto e separato da tutti gli altri, d’essere Siddhartha! E su nessuna cosa al mondo so tanto poco quanto su di me, Siddhartha! […] Che io non sappia nulla di me, che Siddhartha mi sia rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una causa fondamentale, una sola: io avevo paura di me, ero in fuga da me stesso! L’Atman cercavo, il Brahman cercavo, e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le cortecce, l’Atman, la vita, il divino, l’assoluto. Ma proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso. […] É da me che voglio imparare, di me stesso voglio essere il discepolo, voglio conoscermi, svelare quel mistero che ha nome Siddhartha!»
Questo è un piccolo estratto dal romanzo di Hermann Hesse Siddhartha, edito nel 1922. La storia racconta di un uomo alla ricerca di un senso da dare alla propria vita e alla vita in generale, argomento Attuale per eccellenza. In queste ultime settimane siamo stati messi di fronte ad un’entità che ci tormenta: il tempo. Consigli e pratiche su come “passare le proprie giornate”, “riempire i momenti vuoti”, “riappropriarsi del tempo perduto” hanno intasato letteralmente ogni piattaforma sociale e ogni canale televisivo costringendoci ad una relazione forzata con noi stessi. L’incontro con il Sé è problematico sotto molteplici punti di vista: da un lato non siamo abituati ad un contatto diretto con la nostra interiorità e/o con il nostro corpo, dall’altro la conoscenza, o meglio l’idea, che abbiamo di questo nostro Sé è filtrata dall’esterno, mescolata con le credenze e le opinioni del mondo “fuori di noi”. In questa “riscoperta di noi stessi” la filosofia antica, e in particolare quella di Platone, può essere una guida per non perderci e per rendere questa difficoltà un po’ più facile.
Un’ermeneutica del soggetto
Nel 1982 il filosofo francese Michel Foucault tenne un corso al Collège de France dal titolo L’ermeneutica del soggetto, nel quale si proponeva come obiettivo la collocazione e la chiarificazione dei rapporti tra soggettività e verità nel pensiero occidentale. La sua trattazione comincia dalla riabilitazione del concetto della cura di sé e della sua preminenza sul concetto più conosciuto e accreditato del conosci te stesso. Tale posizione deriva proprio dal fatto che nel pensiero antico il conosci te stesso aveva un significato complementare e parziale rispetto alla cura di sé: necessario era occuparsi e non dimenticarsi di se stessi per conoscersi. La figura di Socrate diventa emblematica per questa riformulazione: l’esortazione che rivolge ai suoi concittadini è quella infatti di occuparsi di loro stessi prima di avere a che fare con la collettività. La nozione di cura di sé si articola principalmente in tre aspetti:
– in primo luogo è un atteggiamento verso di sé, il mondo e gli altri;
– in secondo luogo è una forma di attenzione: implica ruotare il proprio sguardo verso se stessi, distogliendolo dall’esterno, gli altri e il mondo;
– in terzo luogo è un insieme di azioni esercitate su di sé, quelle per mezzo delle quali ci si purifica, ci si trasforma e ci si trasfigura (tecniche di meditazione, esame di coscienza, eccetera).
Aver cura di sé
Avere cura di sé assume un significato certo molto più ampio rispetto all’idea che abbiamo di cura: non è semplice estetica, e quindi attenzione verso le percezioni sensibili, ma abbraccia tutta la nostra personalità, la nostra soggettività. Sapere cosa ci rende veramente appagati con noi stessi e cosa ci fa stare bene è il primo passo di quello che è un viaggio meraviglioso alla scoperta del proprio essere e del proprio esserci. Solamente in questo modo, e quindi conoscendo il nostro equilibrio interiore, potremmo essere in grado di stabilire una concordia anche al di fuori di noi. La solitudine, in questo senso, è un concetto relativo e non sorprende che nel pensiero antico non sia presente: ovunque siamo con noi stessi. Tutto questo tempo che ci è stato imposto è un’opportunità per capire chi siamo e cosa vogliamo fare per noi e per gli altri: accogliamola.
«Nella realtà non esiste, io credo, quella cosa che chiamiamo imparare. C’è soltanto, o amico, un sapere, che è ovunque, che è Atman, che è in me e in te e in ogni essere. E così comincio a credere: questo sapere non ha nessun peggior nemico che il voler sapere, che l’imparare».