Se gli smartphone fossero parte della nostra mente? Ecco la risposta di Clark e Chalmers

Dove finisce la mente e inizia il mondo?

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Siamo abituati a vedere gli stati mentali come desideri, credenze, intenzioni o emozioni come qualcosa di estremamente personale, che abitano l’intimità delle persone. Ma è davvero così? 

Il ruolo del dolore

Sicuramente, se vi dicessero che la vostra mente sia qualcosa che abita al di fuori della vostra testa, vi risulterebbe alquanto strano e contro intuitivo. Tuttavia, gli studiosi Clark e Chalmers in The Extended Mind (1998), hanno qualcosa di interessante da dirvi.Innanzitutto, la cornice in cui si muovono è quella della scuola funzionalista, secondo la quale gli stati mentali sono identici a stati funzionali: ossia delle entità che svolgono un ruolo o una certa funzione all’interno di un meccanismo, a prescindere dal materiale con il quale vengono realizzati.Facciamo un esempio: il dolore è tale perché svolge il ruolo del dolore, a prescindere se viene realizzato da alcuni neuroni nel corpo umano, dal limo verde in ET o da dei circuiti in un robot. La cosa fondamentale è il compito che svolge, non la “sostanza” che lo porta alla luce. 

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Una mente estesa 

Partendo da questa cornice, i due hanno esposto il loro Principio di Parità:

“Se una parte del mondo funziona come un processo che, se fatto nella testa, non esiteremmo a riconoscere come parte del processo cognitivo, allora quella parte del mondo fa parte del processo cognitivo”.

Sembra molto oscuro detta così, ma quello che Clark e Chalmers stanno cercando di porci sono diversi interrogativi: siamo sicuri di voler “discriminare” una parte del mondo solamente perché all’esterno della nostra testa? Se fosse all’interno di essa, non la considereremmo parte dei nostri processi riflessivi, della nostra mente? Il punto è che, se si segue il funzionalismo citato prima, ciò che caratterizza gli stati mentali è il ruolo causale che svolgono e non il materiale con cui questi vengono prodotti: dunque, che differenza fa se parte dei processi cognitivi è realizzata da qualcosa di interno o esterno a noi (anche da qualcosa di estremamente contro intuitivo nel nostro immaginario comune)? L’importante è che svolga i corretti passaggi per la realizzazione di una certa funzione. 

Pensiamo a operazioni comuni come lo scrivere su un foglio o il visitare una nuova città attraverso una mappa. Se si sceglie di utilizzare una penna nel primo caso e l’illustrazione delle strade nel secondo, noi interagiamo direttamente con loro e arriviamo a compiere le nostre intenzioni o i nostri desideri attraverso questi: diventano, secondo Clark e Chalmers, parte del nostro processo riflessivo a tutti gli effetti, un’estensione fisica della nostra mente. É come se quest’ultima avesse, nella storia umana, costruito delle impalcature esterne per facilitare i propri processi, la risoluzione dei propri problemi. Estendendosi all’interno dell’ambiente. 

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L’io e il mondo 

Pensiamo, adesso, a degli oggetti che fanno parte ormai delle nostre vite in maniera non solo strumentale, ma quasi intima: gli smartphone. Quando scorriamo le app per parlare con i nostri amici, per cercare una canzone o ordinare del cibo d’asporto, stiamo interagendo direttamente con il nostro telefono affinché vengano realizzati i nostri desideri. Si avvia una catena di relazioni causali che parte dalla nostra testa ma che continua a realizzarsi nello smartphone. Che criterio abbiamo per discriminare quest’ultimo dai nostri processi cognitivi? Se le app fossero all’interno delle nostre teste, non le considereremmo parte della mente? Saremmo portati a rispondere negativamente, direbbero i due filosofi, soltanto perché contraddice il nostro senso comune, perché fa storcere un po’ il naso il fatto che la mente possa essere qualcosa che “abita” fisicamente nel mondo. 

E non è finita qua. Se gli smartphone fossero non solo uno strumento ma una parte costitutiva dei processi mentali, significherebbe che potremmo spegnere una parte di essi a nostro piacimento (ma se ci pensate, alla fine, durante il sonno facciamo qualcosa di molto simile), e addirittura che potremmo condividerli con gli altri, fare in modo che le persone interagiscano con essi, intrecciando le nostre menti: una rivoluzione nel modo in cui abbiamo sempre visto il rapporto fra l’io e il mondo, fra la nostra intimità e la realtà che la circonda. 

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