Dal “De vulgari eloquentia” alla teoria cortigiana: vediamo quali sono le principali teorie riguardanti il cosiddetto problema della “norma”.
La questione della lingua è l’insieme dei contributi e delle discussioni da Dante in poi sulla definizione della lingua italiana, sulla sua stabilizzazione normativa, sul suo aspetto grammaticale, sulla selezione del suo patrimonio lessicale.
DANTE LINGUISTA
Il “De vulgari eloquentia” è a tutti gli effetti un libro di linguistica, il più importante del genere che sia stato scritto nell’Europa medievale. In esso Dante procede a un esame comparativo del generale al particolare osservando dapprima il quadro generale dell’Europa, quindi i paesi del nord e del Nord-est in cui si parlano lingue in cui per dire “sì” usa “iò”, i paesi del Centro-sud come l’Italia e la Francia e la Provenza (con le lingue del sí, d’oïl, e d’oc) e infine la Grecia e le zone orientali in cui è diffuso il greco. La sua attenzione si restringe poi alle tre lingue che ai suoi occhi rivelavano un’affinità tale da fare ipotizzare un origine comune: l’italiano, il francese, il provenzale. Infine si concentra sul volgare solamente, il volgare del sì, analizzando tutti i dialetti della penisola. Nella prospettiva del “De vulgari eloquentia” la mutevolezza degli idiomi umani è negativa perché deriva da una condanna divina, da una punizione. La ricognizione dei volgari risponde a un intento teorico ben preciso ovvero trovare la lingua migliore il volgare illustre che viene indicato con varie appellativi: (aulico, curiale, cardinale). Mostra che questo volgare non si trova affatto nella realtà empirica delle parlate italiane infatti non si identifica con nessuno di quelli parlati nella penisola ma è quello utilizzato da alcuni dei migliori poeti che hanno preceduto Dante come per esempio alcuni dei poeti che hanno fatto parte della Scuola poetica siciliana.
BEMBO E LE “PROSE DELLA VOLGAR LINGUA”
La teoria linguistica di Bembo trova la sua collocazione all’interno di un’opera che almeno in parte risponde ai requisiti di una grammatica: il terzo libro delle “Prode della volgar lingua” infatti è un vero e proprio trattato grammaticale, seppur reso ben poco schematico dalla forma dialogica adottata dall’autore. Il dialogo è ambientato a Venezia nel dicembre del 1502 e vi prendono parte quattro personaggi: Giuliano de’ Medici, Federico Fregoso, Ercole Strozzi ed infine Carlo Bembo, fratello di Pietro Bembo e portavoce delle sue idee. La sua teoria rivela uno spessore culturale paragonabile solo a quello di Dante; Come Dante aveva elaborato la teoria linguistica che meglio esprime gli ideali del medioevo al momento del fiorire della letteratura volgare, così nell’ipotesi di Bembo c’è la più compiuta teorizzazione dell’ideale classicistico rinascimentale. Bembo nella sua teoria approfondiva prima di tutto l’analisi del ruolo svolto dalle popolazioni venute in Italia, distinguendo in base alla durata del contratto con i cittadini romani: il momento esatto della trasformazione del latino all’italiano non poteva essere definito con precisione perché era stata lunghissima la serie delle invasioni barbariche, ma le cause della trasformazione non si legavano più come aveva detto Biondo Flavio al maggiore o minore rispetto per la romanità da parte degli invasori ma alla durata del loro insediamento. Inoltre secondo Bembo la lingua può nascere barbara ma può comunque migliorare nel tempo. Bembo verifica la teoria del miglioramento progressivo anche attraverso il confronto con il provenzale la cui letteratura ha preceduto il fiorire del volgare italiano e ricava l’esistenza di un principio contrapposto, ovvero quello della possibile decadenza. Infine secondo Bembo i modelli che sarebbero dovuti essere presi come esempio per arrivare alla stesura di una prosa e di una poesia perfette sarebbero dovuti essere Boccaccio e Petrarca.
LA TEORIA CORTIGIANA E LA TEORIA DI MACHIAVELLI
Non è facile avere informazioni sicure sulle prime formulazioni della teoria cortigiana perché paradossalmente le fonti più ricche di notizie sono proprio gli scritti degli avversari. Ad esempio, sarà Bembo ad esporre nelle “Prose” la tesi di Calmeta. Secondo l’interpretazione di Bembo la lingua usata alla corte romana e presa da Calmeta come modello sarebbe stata quella che sarebbe nata dal mescolamento di più lingue, come lo spagnolo Il francese, il milanese il napoletano e che poi venne parlata in modo comune alla corte romana. Baldassar Castiglione invece nel “Cortigiano”, uscito nel 1528, rivendicava il diritto di una lingua non rigorosamente toscana, anch’essa comune e basata sulla selezione lessicale operata dagli “uomini che hanno ingegno” lontana da ogni struttura arcaicizzante, non disponibile a ridursi all’imitazione di Petrarca e Boccaccio, anche se non ostile ad accogliere i toscanismi già accettati dalla consuetudine. Il punto di vista di Machiavelli è invece ben diverso. Secondo Machiavelli la lingua da preferirsi è il fiorentino contemporaneo come idioma per natura superiore a tutti gli altri. Nell’opera di Machiavelli Dante in un dialogo fittizio viene rimproverato di negare la matrice fiorentina della lingua della Commedia.