Tutti almeno una volta abbiamo sognato di essere immortali, trovare l’elisir di eterna giovinezza e poter godere di una vita eterna, spaventati all’idea di invecchiare e, soprattutto, di morire. Sin dall’alba dei tempi l’uomo ha cercato delle soluzioni per rassicurarsi di fronte a questo terrore atavico: o cercando di scampare alla morte, creando ad esempio sistemi religiosi che garantissero la sopravvivenza dell’anima rispetto al corpo, o tramite metempsicosi o tramite la garanzia di una vita eterna in un regno altro rispetto a quello terrestre, o cercando di risolvere il terrore stesso, strada solitamente percorsa dalla filosofia (si pensi all’epicureismo, ad esempio). Ma l’invecchiamento, e quindi la morte, si sono sempre rivelati inevitabili. Solo con l’avvento del progresso scientifico e tecnologico l’uomo ha potuto sperare di garantire la sopravvivenza del corpo e non solo dell’anima: ma ancora una volta le sue manie di grandezza si sono dovute infrangere contro i rigidi dettami di Madre Natura.
L’impossibilità matematica dell’immortalità
Centodieci, Centoventi, centotrenta anni: oggi si pensa che a breve possa essere questa la speranza di vita media, rallentando notevolmente il processo di invecchiamento. Ma è questo il problema: si può solo rallentare. Sconfiggere definitivamente l’invecchiamento sarebbe matematicamente impossibile, come dimostrato dall’equazione di due biologi, Paul Nelson e Joanna Masel dell’Università dell’Arizona e pubblicata su Pnas.
I biologi evoluzionisti hanno iniziato a spegnere le speranze di una vita eterna (su questa Terra, almeno) con due principi scientifici fondamentali: l’ombra della selezione e le differenze nell’azione dei geni in gioventù e in vecchiaia. La prima si riferisce ad un processo per il quale, raggiunta una determinata età, in cui si presuppone l’individuo si sia già riprodotto, alcune mutazioni del DNA non vengono più bloccate, in quanto non sarebbero passate alla prole. La seconda è un fenomeno definito pleiotropia antagonista: ciò che avviene è che se alcuni dei geni presenti hanno un’azione positiva in gioventù (e quindi aumentano il successo riproduttivo) la selezione naturale tende a mantenerli. Se poi questi stessi geni hanno un’azione negativa in vecchiaia… peggio per gli anziani, che si ritrovano con pezzi di DNA dall’azione contrastante.
Queste sono le premesse su cui i due biologi dell’Arizona hanno fondato la loro equazione. Creando un modello delle popolazioni cellulari sono riusciti a dimostrare come il destino delle cellule sia già segnato, e siano destinate a incorrere o in una mancanza di funzionalità o ad una crescita e riproduzione incontrollata. Per questo l’invecchiamento è inevitabile: si può provare a risolvere un solo problema, non entrambi. Garantendo un mantenimento della funzionalità si aumenta la probabilità di mutazioni genetiche che portano alla creazioni di cellule tumorali; arginando quest’ultimo fenomeno, si porta ad una sempre maggiore mancanza di funzionalità. Un circolo vizioso a cui non si può scappare. L’invecchiamento, e quindi la morte, sono il prezzo da pagare per essere organismi multicellulari: è inscritto nel nostro DNA.
Perché dovremmo accettare la prospettiva di una fine
Di primo acchito una conclusione di questo tipo potrebbe abbatterci. Ma non dovrebbe essere così. “Invecchiare, che orrore! Ma è l’unico modo che ho per non morire giovane” diceva Pennac. L’uomo non si dovrebbe solo rassegnare all’inevitabilità dell’invecchiamento e della morte, ma dovrebbe vederne la capacità di inverare la vita e l’esistenza. Solo nella prospettiva di una fine siamo in grado di vivere davvero un’esistenza autentica, e in questo Heidegger con il suo essere-per-la-morte ci aveva visto giusto. Solo il fatto che esista una fine, una “impossibilità delle possibilità” ci può far apprezzare seriamente, autenticamente, l’apertura alla vita che abbiamo. Ogni volta che ci si pone di fronte un limite biologico, epistemologico o esistenziale ci troviamo di fronte ad una realizzazione sensazionale: il limite dimostra che esista qualcosa a cui non siamo in grado di arrivare, e per quanto questo confine possa spostarsi ci sarà sempre qualcosa di irraggiungibile; ma il dominio all’interno del limite appartiene all’uomo soltanto, in virtù della sua Natura, che lo costringe a porsi il limite stesso. La ricerca, allora, forse, citando Rita Levi Montalcini, dovrebbe puntare non tanto ad aggiungere anni alla vita, quanto più ad aggiungere vita agli anni.