Ronde anti-migranti: la violenza gratuita espressione di una crisi culturale

Quattro ragazzi, di cui tre minorenni, sono stati arrestati dai Carabinieri di Gioia Tauro perché si dilettavano in ‘ronde anti-migranti’. Quello della violenza feroce e gratuita dei giovani è però un tema che ha poco a che fare con il razzismo e molto con una crisi culturale. La stessa di cui parlano lo scrittore Ray Bradbury e il filosofo Umberto Galimberti.

immigrati rosarno biciclette
Immigrati che si spostano in bicicletta dalla baraccopoli ai campi.
Fonte: Comune di Rosarno

ROSARNO (RC) – Al giorno d’oggi i passatempi a disposizione dei giovani sono innumerevoli: sport agonistici, corsi privati di lingue, di musica, di scrittura creativa, di fiducia in se stessi, di competenze trasversali e chi più ne ha più ne metta. Poi ci sono quelli più caserecci, meno impegnativi e dispendiosi, come i giochi da tavolo, i videogame, le scampagnate con gli amici, il calcetto improvvisato in un prato. Con un sorriso estremamente amaro possiamo annoverare in questo secondo gruppo la ‘ronda anti-migrante‘, macabro hobby che ha portato all’arresto di quattro giovani calabresi, di cui tre minorenni, a Rosarno, nei pressi di Gioia Tauro. La notizia risale all’ottobre 2017 ma è tornata sulle pagine dei quotidiani in riferimento alla situazione disastrosa in cui versa la baraccopoli di Rosarno, che fa da casa a 2500 immigrati, nel mezzo di quella Calabria che ha consacrato Matteo Salvini senatore di questa XVIII legislatura. Il Leader della Lega non ha mancato di presentarsi di persona a ringraziare i suoi elettori, e accolto da uno scroscio di applausi ha ammesso che in passato “la Lega e i meridionali si sono guardati da lontano“, dove ‘guardati da lontano’ evidentemente è un’espressione contemporanea che sta ad indicare gli insulti sistematici e il ricorso ai più beceri stereotipi sul Sud e sui suoi abitanti. Ma poco importa, perché della coerenza di casa Salvini abbiamo già parlato qui.

I quattro arrestati la sera salivano su una Fiat Punto con i bastoni sotto i sedili, e aspettavano di vedere qualche africano in bicicletta ai lati della strada. A quel punto, fuori i bastoni e randellate direttamente dal finestrino, senza neanche fermarsi. Un massacro veloce, micidiale, che ricorda tanto qualche videogioco in stile GTA. Con la differenza che i nasi rotti, le braccia fratturate e le commozioni cerebrali che ne sono seguite non avevano nulla di virtuale o riparabile. Il gip Barbara Borelli ha indicato esplicitamente nell’ordinanza di custodia cautelare “l’aggravante di aver commesso il fatto per finalità di discriminazione e odio razziale”, ma forse non è questa la ragione del gesto della giovane banda. Anzi, probabilmente si sbaglia a partire dal presupposto che esista una ragione per questo gesto.

Significativo è il dialogo intercettato durante una chiamata tra un membro della banda e suo padre: “Scusa, mi trovo i neri in mezzo ai coglioni, alcuni camminano a bordo strada, altri sull’altro lato. Tu che fai?“. Il padre: “Ma tu ti sei fermato?“. “No, non mi sono fermato, ho continuato, che me ne fotte di quelli“. Che me ne fotte. Non si parla di odio. Non si parla di qualche forma perversa di ‘vendetta‘ verso coloro che vengono ormai additati come l’origine di tutti i mali. Si parla di semplice, pura, mostruosa indifferenza che spinge a dimenticarsi che lungo quella strada, d’impiccio al percorso dell’automobilista, ci sono degli esseri umani e non dei coni arancioni.

Una scena del film tratto da Farenheit 451

Questa indifferenza che ‘giustifica’ gesti violenti e privi di alcun movente non è qualcosa di completamente sconosciuto: basta citare il capolavoro letterario di Ray Bradbury, ovvero Farenheit 451. Nell’universo distopico dello scrittore statunitense regnano sovrani una forma estrema di nichilismo che ha imposto di cancellare la storia dalla memoria degli uomini, e un sistema di intrattenimento che ha annichilito ogni possibilità di sviluppare una qualche forma di pensiero critico. L’educazione dei giovani rispecchia perfettamente questi principi: a scuola si pratica prevalentemente ogni genere di sport, mentre nel tempo libero ci si lancia in corse folli con le automobili, tentando di investire il maggior numero di pedoni per puro divertimento. Poco importa se qualcuno muore, o se si muore nell’incidente. Nessuno piangerà le perdite in un mondo in cui i figli crescono lontani dai genitori e all’amicizia si sono sostituiti programmi televisivi tridimensionali che inglobano lo spettatore, facendo scomparire il confine tra finzione e realtà.

Quello di Bradbury, come tutti i migliori romanzi distopici, non era che un tentativo di mettere in luce un aspetto che la società già stava sviluppando in embrione, seppur rappresentandolo nelle sue forme più estreme.
Un esempio lampante degli ultimi anni è quello passato alla cronaca come ‘i ragazzi del cavalcavia‘: nel 1996 i fratelli Alessandro, Franco e Paolo Furlan, assieme al cugino Paolo Bertocco, uccisero la trentenne Maria Letizia Berdini gettando sassi da un cavalcavia, nella speranza di colpire qualche macchina di passaggio. Durante il processo che portò alla condanna a 27 anni di carcere – poi ridotti a 18 in appello – i ragazzi dichiararono il motivo di questo folle gesto: “per scacciare la noia, non sapendo come trascorrere una serata d’inverno nel periodo natalizio“. Una spiegazione tanto inconcludente quanto inquietante.

Il filosofo monzese Umberto Galimberti

Il caso dei ragazzi del cavalcavia è stato studiato, insieme ad altri episodi di omicidi inspiegabili e atti di violenza gratuita perpetrati da giovani, dal filosofo contemporaneo Umberto Galimberti nel suo libro ‘L’ospite inquietante – il nichilismo e i giovani‘. La tesi di Galimberti parte dal presupposto che questo periodo storico, post-ideologico e profondamente rassegnato, in cui il futuro da promessa si è fatto minaccia, abbia dato vita ad una generazione di giovani la cui vita è caratterizzata da uno stato di noia e di vuoto di senso perenni. “Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere qualche promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso.” Il filosofo sottolinea che a questa forma sistemica di disagio, che inonda gli appartenenti dell’intera generazione nata piena di cose regalate dai genitori, si accompagna un altrettanto sistemico analfabetismo emotivo, ovvero la totale incapacità di comunicare questo vuoto al mondo esterno, a stringere relazioni che si basino su una profonda comprensione di sé e del proprio stare al mondo. Trattandosi di un fenomeno così strutturale, è sbagliato, secondo Galimberti, parlare di un problema di tipo esistenziale: ci troviamo infatti di fronte ad una vera e propria crisi culturale.

In questo deserto di senso ogni richiamo all’impegno in vista di un fine, alla preoccupazione per il futuro, risuona come un fastidioso rumore di sottofondo. Meglio dunque cercare rifugio nella musica assordante o in qualche sostanza che inibisca la consapevolezza di una voragine interiore, o forse in un qualche atto privo di senso come la violenza gratuita e ingiustificata. Come buttare sassi da un cavalcavia, o linciare gli immigrati che si spostano in bicicletta dalla baraccopoli dove vivono ai campi in cui lavorano in condizioni disumane. Per ammazzare la noia, per sentirsi vivi, per il gusto di fare qualcosa “così, perché mi andava”.

Tanto, che me ne fotte.

Giulia Cibrario