Non c’è nulla di più triste che non essere compresi dalla persona che amiamo. Insomma, credevo che quella storia su Instagram fosse abbastanza facile da capire. No?
Perché non mi hai detto che hai incontrato la tua ex? Ora non potrò più rispondere al telefono. E se lo faccio, quando leggo il tuo nome, in realtà, non ho né voglia né pietà. Voglio che tu sappia cos’ho senza che te lo dica io. Devi chiederlo. Solo se tu lo chiedi, allora sei interessato. Eppure, non lo fai, non chiedi. Però, voglio che tu sappia. Quindi? Non ti interesso? Bene, allora non ti rispondo più. Mi chiami e mi chiedi cosa c’è, perché non voglio parlarti, che succede? Dovresti saperlo, non credi? Sono stata offesa e tu devi farti perdonare. Chiederai scusa finché io non deciderò il contrario. Alla settima volta, rispondo che non ho niente, davvero. Credimi, no? Che ti costa? E tu continui a parlarmi come se nulla fosse. Non hai capito niente, come al solito. Insopportabile, non ti rispondo. Avrai la mia vendetta. Nel frattempo, però, non ho “niente”.
Assenza. Il discorso sull’assenza di chi attende la presenza dell’assente
Tutti sappiamo come funzionano le storie a distanza: l’altro parte, io resto. L’altro abbandona, io vengo abbandonato. L’assenza non viene rimproverata dall’oggetto amato, che si allontana, ma viene sofferta dal soggetto amoroso, che è sedentario. Genialmente, Barthes formula l’assioma dell’io. Quello che ci ripetiamo, come un maledetto mantra, ogni volta che l’altro va a dormire senza augurarci la buonanotte e pensiamo subito (irrazionalmente?) che ci stia tradendo: Sono meno amato di quanto io ami. In quel preciso istante, come un moment of being woolfiano a ciel sereno, l’io presente, a letto e senza la buonanotte, decide di fare il fatidico discorso sull’assenza al tu assente. Quindi, l’io, saturo, apre FaceTime, fa la chiamata al suo tu, inizia uno storytelling particolareggiato di dettagli (la maggior parte fasulli), alla Guadagnino, sul caffè che ha preso con i suoi amici. Tutti ricercano le sue attenzioni da quando non c’è più l’altro, egoista, a tenerle per sé. Sfoggia la sua indipendenza e anzi, per provocarlo, racconta addirittura di quel tipo che ne ha approfittato per mandare una reaction su Instagram. Però, è evidente che questa chiamata è un assoluto paradosso. Tu sei assente come referente (non ci sei e per questo soffro), ma sei presente come allocutore (perché mi rivolgo a te) e ascolti i miei racconti megalomani su come tutti mi vogliano quando non ci sei tu. L’io è confusamene incastrato in questo circolo, sospira a mo’ di Cavalcanti le stesse parole che Ronaldo rivolge agli studenti di eCampus… Ti aspetto (senza l’erroneo nesso dell’occlusiva velare + dentale). Mi immagino l’altro che, nomade, prima di attaccare all’io, fermo, risponde con disarmante nonchalance: Babe, io non voglio spezzarti il cuore, so come ci si sente soli in mezzo alla gente. Ketama126 docet. D’altronde, Barthes, il trapper della semiologia, non avrebbe saputo formulare una risposta più congeniale di questa.
Io-ti-amo. Il verbo amare non esiste all’infinito, se non per un artificio metalinguistico
Quando si dice io-ti-amo, la missione è stata compiuta e forse la schiavitù d’amore potrà aver fine. E invece, è appena iniziata. Dopodiché, si trasforma in una sorta di formula rituale che ha il difetto estetico di non poter andare oltre all’immediato. Come i ragazzi a letto, insomma. No, scherzo: love is not a dirty word, l’amore non è una parolaccia. Urlatelo sempre, se ne avete voglia. Seguono delle risposte che rimbalzano l’io, un po’ alla Ted Mosby , come io no, non penso che tu sia sincero, perché lo dici? e così via. Tra queste, due sole sono letteralmente lapidarie: la non-risposta e anch’io. Il Non c’è risposta, a livello teoretico, è l’annullamento dell’io, sia come soggetto amoroso, poiché respinto, sia come soggetto parlante, poiché il linguaggio con il quale si domanda amore viene negato. A livello pratico, è solo il classico ghosting del tipo che ci piace nella nostra corrispondenza epistolare su Whatsapp: ti dichiari prima di lui (errore coraggioso, però) e lui sparisce, come nei trend di Tik Tok. Non sei tu, sono io, scusami e, poco dopo, lo vedi taggato nelle storie di altre ragazze, intento a bersi un amaro con la Critica alla Ragion Pura di Kant sotto il braccio. No, è vero. Ormai, i ragazzi leggono solo Essere e Tempo di Heidegger. Meglio, non fidatevi mai di chi crede nella possibilità di “essere” solo con la morte (di una relazione che poteva, forse, nascere). Largo a sentenza.
Anch’io. La gioia arcadica all’American Dream dell’essere ricambiati
“Io ti amo” – “Ti amo anche io”. Il finale perfetto per una storia ispirata ad una pellicola woody-alleniana. E così, si fa strada un mutamento nella relazione, una rivoluzione. Si catalizza un meccanismo dialettico per cui l’io-ti-amo viene finalmente pronunciato con la speranza, al limite dell’aspettativa, di essere contraccambiato. L’io lo considera un’esperienza al pari del sesso con gli angeli, dopo aver sentito quella dodecafonica parola magica. Ma non desidera solo sentirsi amato a sua volta e ben sicuro di questo. Desidera, anzi, di sentirselo dire con quella stessa formula, senza alcuna variazione sintattica o scappatoia, con lo stesso significante per quel significato. Un amico di Barthes, Gilles Deleuze, parlava di concatenamento, cioé desiderare è la summa di altri desideri, concatenati tra loro. Ad esempio, io non voglio solo che tu mi dica che mi ami. Io voglio che tu me lo dica portandomi nel mio posto preferito, prendendomi per la mano, regalandomi un mazzo di tulipani (quelli colorati che mi piacciono tanto), facendomi scegliere la musica da mettere in macchina al ritorno. Così, tanto se dovessi immaginare una situazione tipo, capito? Gilles Deleuze aveva forse aiutato il suo amico Barthes. Forse, gli aveva fatto capire che le ragazze, quando dicono di non avere nulla, in realtà, sono ad un passo dal concretizzare un regime di Terrore degno di Robespierre o Hitler, mentre in sottofondo ascoltano Gazzelle: Non mi chiedi mai veramente come sto, come vuoi che sto? Non lo so nemmeno io, boh.
Il visualizzato nello zeitgeist del 2021
Fatto salvo degli insight jokes che la lettura critica di Barthes tende naturalmente a far fare, forse l’aspetto più emozionante è constatare che siamo tutti sulla stessa barca, nelle acque della manifestazione empirica dell’amore, cioè il linguaggio. Se non fosse, però, che la barca in questione è proprio il Titanic. Il mutismo selettivo, le “k” triplicate negli ok per cercare di marcare il senso di rabbia, la perversione masochistica del Voglio capire, dimmi quando una discussione è in un acceso work in progress: sono armi che tutti conosciamo. Vuoi perché le utilizziamo per far male, vuoi perché le utilizzano per farci male. Barthes, che alla fine, però, è anche un po’ un indie boy della linguistica, ce lo dice chiaramente. Ci dice che il discorso amoroso è di una solitudine infinita: lo parlano migliaia di individui, ma nessuno lo sostiene per quel che è. Per questo, ogni conversazione appare come un elogio alla follia di Erasmo da Rotterdam del XXI secolo. I frammenti si trasformano, più semplicemente, in Tweet di un discorso amoroso. E se, in realtà, Dio non avesse creato la confusione tra le lingue per punire solo l’audacia della costruzione della torre di Babele? E se l’avesse fatto, fiducioso, per far capire agli uomini che una lingua in comune esiste, che l’hanno e l’avranno sempre?
Forse, però, Dio non pensava che avremmo visualizzato e non risposto.