Dal delitto Moro al caso di Tangentopoli, Sorrentino mette in luce le principali controversie in cui fu coinvolto Giulio Andreotti.
Giulio Andreotti fu uno dei principali esponenti della democrazia cristiana. Ricoprì per sette volte la carica di presidente del Consiglio e per trentaquattro volte fu Ministro della Repubblica. Vediamo come il regista Paolo Sorrentino lo porta sulla scena del cinema.
ANDREOTTI E IL DELITTO DI ALDO MORO
Giulio Andreotti (1919-2013) fu uno scrittore, giornalista e personaggio politico italiano per gran parte della seconda metà del XX secolo. Fu il candidato con maggiore numero di preferenze alle elezioni politiche italiane del 1958, del 1972, del 1979 e del 1987. Nel 1976, dopo i successi alle elezioni del Partito Comunista italiano (PCI) si avviò una nuova fase politica, ovvero la “Solidarietà nazionale”. Allora Andreotti era un leader democristiano che non si era mai schierato su una linea di sinistra. Il governo si basava sull’astensione dei comunisti e degli altri partiti dell’arco costituzionale. Sul versante democristiano fu Aldo Moro l’ispiratore di quella svolta; egli nel 1946 era stato eletto alla Costituente e aveva contribuito molto a redigere la Carta costituzionale, inoltre nel 1959 era stato eletto segretario della Democrazia Cristiana. La pellicola di Sorrentino si apre proprio con una serie di morti di personaggi influenti dell’epoca e tra questi vi è pure Moro. Egli infatti era stato rapito e ucciso da un gruppo armato nato nel 1970, le “Brigate rosse” (BR). Queste, tra il 1972 e il 1973 proseguirono con rapimenti di breve durata di dirigenti delle grandi industrie come la Fiat e l’Alfa Romeo. Nel 1974 sequestrarono il magistrato Mario Rossi, fu in quello stesso anno che uccisero le prime persone, e nel 1976 alzarono il tiro assassinando un altro magistrato di Genova, Francesco Coco, insieme agli uomini della sua scorta. Da quel momento si intensificò quello che i brigadisti chiamarono “l’attacco al cuore dello stato” che avrebbe provocato in tutto tra morti e feriti circa 130 vittime. Il rapimento di Moro avvenne il 16 Marzo del 1978; i rapitori chiesero la liberazione di alcuni brigatisti arrestati e una sorta di riconoscimento politico da parte dello stato. Non si sa quanto volessero davvero trattare, ad ogni modo la controparte, formata dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista italiano, non fu disposta a trattare. Così dopo 55 giorni di prigionia, con esattezza il 9 Maggio, il cadavere dello statista e democristiano fu fatto ritrovare in un automobile nel pieno centro di Roma. Ancora oggi sono molte le ombre che continuano a pesare sul “caso Moro”. Nell’immediato il dramma sembra aver rafforzato il progetto della “solidarietà nazionale”, infatti il 16 marzo stesso I comunisti votarono a favore del governo Andreotti rafforzando la risposta unitaria all’offensiva terroristica e quindi la difesa delle istituzioni democratiche.
IL CASO DI TANGENTOPOLI
Un altro fatto di particolare rilievo storico che interessò il governo Andreotti fu quello che vide protagoniste le inchieste giudiziarie di Tangentopoli. Figura di particolare importanza che giocò un ruolo chiave nella questione fu Bettino Craxi. Quest’ultimo fu presidente del Consiglio dei Ministri dal 1983 al 1987 e segretario del Partito Socialista Italiano dal Luglio del 1976 al Febbraio del 1993. Negli anni in cui scoppiarono le inchieste giudiziarie di Tangentopoli Craxi aveva la sua roccaforte a Milano. Attraverso uno slogan pubblicitario del tempo si parlò sarcasticamente di una “Milano da bere” divenuta il simbolo di una nuova “dolce vita” italiana. Proprio in questa Milano “da bere” si sviluppò a partire dal febbraio del 1992 una sequenza di inchieste giudiziarie che avviò la cosiddetta stagione di Tangentopoli (cioè la città delle tangenti). Emersero con enorme clamore i legami tra politica e mondo degli affari. I socialisti vennero coinvolti al pari degli altri ma il craxismo con le sue esaltazioni dell’efficienza e della modernità del sistema divenne più sospetto delle altre correnti politiche agli occhi dell’opinione pubblica. Il 23 maggio del 1992 furono uccisi Giovanni Falcone e sua moglie, il 19 luglio del 1992 fu ucciso Paolo Borsellino: l’opinione pubblica considerava la mafia non tanto come una forma di criminalità quanto come una patologia del potere, il paese fu preso dunque da una fortissima indignazione. Fu in questo scenario che Andreotti, uomo di primissimo piano, fu accusato di complicità con la mafia. Andreotti fu assolto ma con motivazioni che sembrerebbero indicare una sua qualche responsabilità.
“IL DIVO” DI PAOLO SORRENTINO
“Il Divo- La spettacolare vita di Giulio Andreotti” è un film del 2008 scritto e diretto da Paolo Sorrentino incentrato sui tratti salienti della vita di Giulio Andreotti, in particolare sugli eventi dal 1991 al 1993. Il titolo riprende il soprannome che gli diede il giornalista Mino Pecorelli prendendo spunto dalla figura di Giulio Cesare. La prima parte della trama fa riferimento agli avvenimenti che si susseguirono dopo il delitto Moro. Il film inizia infatti proprio con l’elenco di una serie di morti di personaggi di particolare influenza, tra cui appunto Aldo Moro, e prosegue poi con le parole delle lettere di Aldo Moro che, dalla sua prigionia, si rivolgeva proprio ad Andreotti pregandolo di trattare con i suoi rapitori perché potesse essere liberato. La seconda parte del film tratta invece le vicende riguardanti i presunti rapporti di Andreotti con la mafia. Di particolare fascino è parte del monologo che nel film recita Andreotti, interpretato da Toni Servillo, rivolgendosi alla moglie Livia.
“Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984, e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch’io.”
Andreotti dopo aver visto il film lo definì “una mascalzonata” e, a seguito della vittoria della pellicola al Festival di Cannes commentò in questo modo: “Se uno fa politica pare che essere ignorato sia peggio che essere criticato. Dunque…”.