15 minuti di troppo: quando a togliere la vita è la celebrità

Anni fa l’eccentrico artista Andy Warhol affermò che ognuno di noi può ottenere nella vita quindici minuti di fama: un tempo che farebbe storcere il naso a molti, soprattutto se paragonato a quello a disposizione di coloro che proprio della notorietà ne hanno fatto quotidianità. Che siano essi musicisti, influencers, attori, promesse sportive o artisti, le cosiddette “star” che popolano il firmamento hollywoodiano (e non solo) rappresentano infatti la fonte di ammirazione – e al contempo di invidia – che più condiziona ciascuno di noi, facendoci però dimenticare che – come ogni “astro” che non brilla di luce propria, ma piuttosto riflettendo quella emessa da chi la idealizza – c’è sempre un lato perennemente in ombra che tutti ignorano.

Fasi Lunari – Grafica di @emeritus.4

Dalla scrittrice e conduttrice italiana Alessandra Appiano fino al noto chef newyorkese Anthony Bourdain. E poi ancora attori come Mark Salling (Glee), Robin Williams, Brad Bufanda (Veronica Mars), il produttore e dj Avicii e prima di lui il vocalist Chester Bannington. Da ultimo, all’inizio di agosto, il modello ultratatuato noto come Zombie Boy e protagonista del video musicale “Born This Way” firmato da Lady Gaga.
Sono solo alcuni dei nomi delle star internazionali e non il cui nome – prima associato a successi televisivi, traguardi invidiabili e vite sfarzose – ora viene immancabilmente affiancato alla parola “suicidio”.

Celebrità: le vittime sacrificali della nostra adorazione

Jib Fowles, scrittore e professore di studi sui media all’Università di Houston-Clear Lake, effettuò uno studio su 100 vip provenienti da tutti i campi – dal mondo di Hollywood, fino a quello dello sport e della musica – riscontrando che le celebrità hanno quasi il quadruplo delle probabilità di togliersi la vita rispetto al cittadino americano medio. Stando ai risultati di Fowles, l’età media della morte delle nostre amate star era infatti di soli 58 anni: una cifra preoccupante, se paragonata alla media nazionale americana di 72 anni.
“Mai in una società l’individuo è stato tanto importante quanto nell’America contemporanea” ha chiosato lo stesso ricercatore. “Non appena le antiche figure eroiche – leader militari, politici e religiosi – sono cadute nel dimenticatoio, gli intrattenitori hanno preso il loro posto: sono stati consegnati a noi come esseri umani perfetti, li osserviamo come ideali e questo ci dà sicurezza, ma il peso ricade pesantemente su di loro in un modo che nemmeno possiamo comprendere” avrebbe concluso Fowles.

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Walk of Fame, Hollywood, credit: Mental Floss

Le fasi della fama: dalle stelle (dello schermo) alle stalle (dell’inconscio)

La prima fase nel processo di affermazione della celebrità è caratterizzata in primis da una ricerca sfrenata di quest’ultima: quando ancora l’individuo sente di non essersi affermato del tutto, la caccia spasmodica di un pubblico e dei riflettori catalizza ogni minuto della sua attenzione, creando a livello fisico (ma soprattutto psicologico) un palco personale costruito, un mattone alla volta, dal riconoscimento da parte degli altri e dall’autoaffermazione.
La seconda fase della celebrità è invece rappresentata dai quindici minuti di cui parlava Warhol: l’interesse dei media e delle persone suscitano nell’individuo appagamento, soddisfazione, euforia ed eccitazione, spingendolo a mettere anima e corpo nella propria carriera per fa sì che quella stella che lo contraddistingue non si riveli una meteora.
Il declino psicologico della celebrità ha inizio però solo nella fase successiva, quando l’abbraccio dell’occhio di bue mediatico si trasforma in una stretta soffocante: tra le conseguenze negative della fama si ritrovano così un profondo senso di perdita di sé (intaccato dagli stessi stereotipi che i fan riflettono su di lui, il vip inizia infatti a frantumare involontariamente la propria personalità), la paura di diventare meteore (ovvero la fobia che la propria stella fortunata possa spegnersi da un momento all’altro), e poi ancora sensazioni di solitudine, depressione, mancanza di fiducia in sé, esasperazione della propria immagine pubblica, comportamenti auto-distruttivi o tentativi di isolamento. Una delle reazioni più ricorrenti nel mondo dello spettacolo è altresì la cosiddetta sindrome dell’impostore: alcune celebrità sono talmente sconcertate dalla loro stessa fama – della quale non riescono a capire il motivo e la provenienza – da iniziare a percepire sé stesse come “truffatori non meritevoli di alcun successo”. Consequenzialmente nasce nella vittima una paura incontrollata, sgorgata dal timore che il pubblico possa scovare i suoi punti deboli, rivelando a tutti che non è poi così tanto talentuosa, carismatica, affascinante ed intelligente come i media e gli stessi fan l’hanno sempre descritta.

Tra i modi più consueti – e purtroppo più dannosi – utilizzati dalle celebrità per sopperire a questi disturbi della psiche ritroviamo l’abuso di droghe e alcool, identificate come una via di fuga da quell’opprimente, claustrofobico e a tratti insostenibile castello di aspettative che si sono involontariamente costruiti intorno: l’elenco delle morti celebri causate dall’eccesso di droga è lungo e continuamente in crescita, ed annovera innumerevoli nomi della “Hall of Fame” tra cui Elvis Presley, Judy Garland, Marilyn Monroe, Jim Morrison, Janis Joplin, Scott Newman, David Kennedy, John Belushi e River Phoenix.

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“Suicidio” di Émile Durkheim

La tassonomia del suicidio secondo Durkheim

Tra i maggiori studiosi di suicidologia ci fu il sociologo, filosofo, antropologo e storico delle religioni Émile Durkheim (1858-1917), il quale – attraverso lo studio dei tassi di suicidio spalmati in diversi paesi e diverse epoche storiche – stilò una tassonomia di tre tipologie di suicidio: altruistico, egoistico e anodico.
Nel primo caso – ovvero quello del suicidio altruistico – l’individuo sceglie di sacrificare la propria vita come gesto eroico, per affermare o preservare i valori etici del gruppo sociale di appartenenza, rinunciando alla propria individualità a favore della comunità.
Nel suicidio egoistico, al contrario, le cause scatenanti sono invece delle emozioni di esclusione, frustrazione sociale e mancata integrazione nell’ingroup, la cui esasperazione porta la persona a non reggere la competizione sociale creatasi e ad optare per un gesto radicale come il suicidio.
L’ultima tipologia descritta da Durkheim riguarda infine il suicidio anomico, ossia quell’atto estremo contro le regole che l’individuo mette in campo come ribellione nei confronti della società, la quale reprime costantemente le passioni ed i desideri della singola persona. Per Durkheim, quest’ultima tipologia di suicidio aumenterebbe proporzionalmente all’insorgere sia di momenti di crisi economica sia – al contrario – di benessere economico, mentre subirebbe un forte calo nei periodi di depressione dovuti alla presenza di conflitti, guerre o disordini politici.

 

La fama crea una personalità, invece di una persona” affermava Whitney Houston, racchiudendo in poche parole il pensiero di un’intera classe sociale di persone: le vittime degli applausi e della televisione, tutte quelle persone che – ai nostri occhi – in modo accidentale assumono la stessa consistenza pixelata di quegli schermi e si ritrovano obbligati ad assorbire come spugne tutte le nostre insicurezze ed imperfezioni trasformandole in sostanza eterea. Ma che allo stesso tempo – quando la luce dei riflettori si spegne ed inizia l’eclissi – vedono la propria stella mutare irrimediabilmente sotto gli occhi di milioni di persone. A volte in modo irrimediabile.

Francesca Amato