Da zona sicura Rafah è diventata in meno di venti giorni la tomba di bambini senza testa, il teatro di figli che piangono di fronte al corpo del padre tra le fiamme ed il sepolcro di almeno quarantacinque vittime innocenti. Tutta la ragione del mondo non potrà di certo assolvere i responsabili del massacro in atto da otto mesi nella piccola striscia di Gaza che, ad oggi, piange la morte di 36.000 figli.
Scopriamo cosa sta succedendo a Rafah e, sulla scorta del diritto internazionale, indaghiamo le violazioni commesse dallo stato di Israele.
RAFAH
“Se entrano a Rafah stop all’invio di armi offensive” aveva dichiarato Biden ad inizio maggio nella speranza di fermare la furia omicida di un governo votato alla guerra. Se infatti l’esercito israeliano avesse superato la “linea rossa” disegnata dalla Casa Bianca (in teoria), anche il Paese che tutto muove avrebbe fatto un passo indietro. Sorprendentemente però nella giornata di ieri, 28 maggio, il portavoce del Consiglio di sicurezza statunitense Kirby ha dichiarato che Israele “non ha superato la linea rossa”, aggiungendo che “Non ho alcun cambio di politica da comunicare a seguito dell’attacco di domenica. E’ semplicemente accaduto. Gli israeliani indagheranno, e ci interesseremo molto ai risultati delle loro indagini. Vedremo come muoverci in seguito”. È quindi così che ancora una volta il Big brother a Stars-and-Stripes decide di tirarsi fuori da una questione che lo vede protagonista, anzi, lo vede l’unico in grado di fermare questa terribile guerra che in otto mesi ha distrutto intere città ed ucciso 36.000 persone. Insomma nulla di nuovo sul fronte occidentale direbbe Remarque. Sul fronte orientale intanto, il 27 maggio, un raid israeliano con “Obiettivo Hamas” ha colpito un campo profughi uccidendo “almeno 45 persone e ferendone oltre 180”. Nulla di che, solo un “tragico incidente” che “in guerra succede” ha dichiarato Benjamin Netanyahu.
COSA DICE LA LEGGE INTERNAZIONALE?
In quella che sembra la novella rappresentazione dell’Antico Testamento, lo Yahweh del XXI secolo sta portando avanti una guerra “unilaterale” contro un popolo che, al di là di ragione o del torto, non è in grado di difendersi. Tra chi si indigna, chi nega e chi lotta, tutto il mondo è testimone di questo gioco-forza apparentemente destinato a non avere vita breve, contro il quale però voci eminenti stanno iniziando ad intervenire, anche se con qualche mese di ritardo. Un’organizzazione intergovernativa come l’ONU fondata per bonificare il mondo dalle scorie radioattive delle bombe atomiche e ricostruire le macerie di un’Europa in frantumi, ha lo specifico compito di mantenere la pace e la sicurezza, fornendo aiuti umanitari e garantendo il rispetto del diritto internazionale. Sulla base di ciò, quali sono le violazioni di tali norme perpetrate da Netanyahu in questi ultimi otto mesi di guerra? In primis figura il “crimine di punizione collettiva contro Gaza”riconosciuto dalla Corte penale internazionale oltre che dall’ONU, Amnesty International e Human Rights Watch, tutti d’accordo sull’incompatibilità dell’obsidione modus della Striscia con il diritto umanitario. In particolare si fa qui riferimento al taglio delle forniture elettriche ed idriche, oltre che alla distruzione (documentata) degli aiuti umanitari. Segue tale imputazione, l’accusa del Center for constitutional rights di violazione dei diritti umani (riconosciuta già dal 1967) che, in accordo con la IV Convenziona di Ginevra, denuncia l’occupazione illegale del territorio palestinese e le politiche di apartheid promosse dallo Stato di Israele.
E ORA?
Sebbene le numerose manifestazioni sparse per il mondo siano fondamentali per la mobilitazioni delle coscienze, nessuno è mai riuscito a vincere una guerra con la forza della parola. Soprattutto quando questa deve fare i conti con taciuti accordi internazionali apparentemente immuni all’autorità della Corte penale dell’Aia, unica reale speranza per i due popolo in guerra, che sembra procedere con la lentezza sconvolgente di chi non può o non vuole mettere fine a questa situazione. L’attuale procuratore capo Karim Khan ha dichiarato di aver aperto le indagini sui crimini di guerra perpetrati a partire dal 2014 su Gaza e Cisgiordania, dimostrandosi deciso nella risoluzione di un conflitto vecchio come il mondo. La sua volontà deve però scontrarsi con il rifiuto alla cooperazione affermato a gran voce da Israele, oltre che con il divieto di ingresso nel Paese e nei luoghi occupati stabilito da Tel Aviv. Tale riluttanza si rifà alla mancata ratifica israeliana (oltre che statunitense e russa) dello Statuto di Roma, grazie al quale nel 1998 venne istituita la Corte penale internazionale con sede nei Paesi Bassi. È questa, tra l’altro, una delle ragioni che spinge la Casa Bianca a dichiararsi contraria rispetto qualunque tipo di indagine su Israele. Di tutta risposta però, la camera dei giudici ha ricordato alla lontana Washington che tutte le aree in cui Israele avrebbe compiuto crimini di guerra e violazioni dei diritti umani (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est) sono sotto la giurisdizione della Corte che, quindi, ha pieno potere di giudizio (e condanna) nei confronti di Israele e Hamas. A quale errore ci si potrà appellare allora?