Processo 6ix9ine, impariamo davvero dai tribunali?

Probabilmente ora tutti sanno chi è Daniel Hernandez, aka 6ixNine, il suo nome e la sua carriera (musicale e non) sono rimbalzati praticamente in ogni angolo del web dopo l’arresto e le accuse del Dipartimento di Giustizia americano nei suoi confronti, che l’hanno reso ulteriormente noto come il rapper che rischia l’ergastolo.

Tutto ciò ha fatto parlare tanto, dai rapper stessi agli ascoltatori che hanno visto quel ragazzo allegro e particolarmente esuberante finire in tribunale in completo elegante, con espressione tesa, davanti al giudice e gli avvocati che, dati i capi d’accusa non proprio di poco conto, continuano a spingere per una condanna severa. A questo si aggiunge, come se non bastasse, l’aggravante della recidiva dati i problemi legali avuti in passato con diversi tribunali negli Stati Uniti, dunque il quadro che viene fuori del signor Hernandez non è certamente quello di un bravo ragazzo.

Il crimine ed il processo in tribunale per Durkheim

Émile Durkheim è uno dei padri sì di tutta la sociologia, ma che ha ispirato soprattutto la scuola di pensiero funzionalista, come si evince dalla sua ricerca di funzionalità degli elementi sociali più disparati, come nel caso in quastione, del crimine.

Il crimine è un elemento sociale deviante, cioè non conforme alle norme scritte e non della società, ma, per il sociologo francese, non patologico, in quanto la funzione del crimine va osservata nel processo giuridico che ne consegue, essendo quest’ultimo un vero e proprio rito, presenta una forte carica emozionale, una modalità specifica di sviluppo, ed un fine preciso, che è quello, per Durkheim, di elevare e lodare i valori morali sui quali una società si fonda, fungendo da elemento istruttivo nei confronti degli individui. Ma nel mondo del rap spesso il processo non è visto in questo modo, soprattutto se si fanno altri nomi, come ha fatto 6ix9ine.

Ciò che conta è non essere lo snitch

Snitch, la traduzione in italiano è spia, infiltrato, in sostanza qualcuno che verrà definito infame. Hernandez è stato massacrato mediaticamente per aver fatto i nomi degli altri membri della gang di cui faceva parte, per alleggerire una condanna che avrebbe probabilmente portato via gran parte della sua vita, collaborando dunque con la legge e tradendo i compagni di avventura, il rapper ha guadagnato qualche punto con la legge e ne ha persi un’infinità con la scena che gli apparteneva.

Sul web non si è fatto altro che parlare di 6nitch9nine, puntando il dito contro di lui e regalandogli questo nuovo ironico e particolare soprannome del quale di certo non sarà contento, ma che fa riflettere su ciò che si è detto precedentemente su Durkheim, perchè in questo caso i crimini commessi sono stati del tutto accantonati, non contano più le azioni sbagliate commesse in passato, non le si giudicano in nome dei valori morali alla base della società (come si è visto prima), il processo non ha educato e indirizzato verso la giustizia ma al contrario tutti hanno focalizzato l’attenzione sulle confessioni di 6ix9ine, dal gansta-rapper al ragazzino che ascolta rap che col crimine ha davvero poco a che fare.

La maschera del personaggio criminale cade davanti alla legge

Il problema fondamentale sta nella coerenza del personaggio, che giusto o sbagliato che sia deve essere vero. Daniel Hernandez, come altri prima di lui, si è costruito quella reputazione di rapper senza paura, nè per la legge, nè per i suoi rivali, enfatizzando questi aspetti della sua personalità con  video provocatori che l’hanno spinto tanto nella scena rap mondiale, ma crollati sotto gli occhi di tutti quando si è trovato al cospetto della legge.

Puntare il dito, magari il medio, contro lo snitch è controproducente, bisognerebbe concentrarsi sui suoi reati gravi ed i tribunali, magari, potrebbero insegnarci qualcosa

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