In una società in cui vige l’esaltazione estrema dell’individualismo, dove ci viene insegnato che bisogna fare le cose per se e non per gli altri… che ruolo ha la televisione?
Sapere e non sapere, sapere e non voler sapere. Come ben evidenzia lo psicoanalista Franco Lolli nel suo libro L’epoca dell’inconshow, sembra che il funzionamento della civiltà contemporanea graviti proprio attorno a tale dicotomia, spesso generata da un diniego della realtà e da ciò che di perturbante vi si trova: “tutto ciò che implica una presa d’atto degli elementi che disturbano il must edonistico della società dei consumi viene trattato come non saputo. […] Ma questa realtà disconosciuta riemerge puntualmente riproponendo la questione angosciante irrisolta, così ciò che viene rinnegato dalle politiche massmediatiche ed economiche del regime capitalistico sopravvive subdolamente nella coscienza collettiva come sottofondo inquietante, sempre pronto a riattivarsi”.
Chiara, limpida e palese come un ombra
All’interno di un’ indagine estremamente contemporanea, che vuole esplorare le caratteristiche proprie della nostra società per comprenderne meglio i suoi fenomeni, il libro di Lolli offre uno sguardo assolutamente disincantato su ciò che ci circonda e ci avvolge da quando nasciamo (valori, ideali, orientamenti, identificazioni…), con il fine di permettere una migliore comprensione delle dinamiche che regolano la vita e le relazioni tra soggetti. Di rilevante importanza è il dispositivo televisivo, nel quale possiamo reperire molte delle coordinate proprie dell’attuale contesto storico-sociale – pare infatti che una caratteristica tipica dell’immaginario televisivo sia quella di poter riflettere, o addirittura determinare, le particolarità socioculturali che dominano la nostra civiltà. Basti pensare alle varie pubblicità o a programmi come i reality show che tutti i giorni vengono mandati in onda nell’ormai ex tubo catodico. E allora, lente di ingrandimento alla mano. Siamo pronti a scrutare uno dei mezzi di comunicazione più seguiti ed influenti al mondo. Infittiamo gli occhi, tratteniamo il respiro ed osserviamo il suo manifestarsi. Pollice dopo pollice, secondo dopo secondo, programma dopo programma… ma niente! Pare infatti che questo dispositivo non abbia poi tanto da nascondere (se non le varie strategie organizzative delle diverse reti per far fronte alla concorrenza ed accaparrarsi l’impennata di ascolti). Sicuramente, al pari del resto dei media, non è poi così difficile rinvenire tutte quelle manovre opportunistiche attuate per tenere gli spettatori incollati davanti lo schermo. Tali manovre, nei casi più disperati, pare diano luogo ad un’informazione del terrore che, provocando paura, angoscia e senso di impotenza, si occupi di rendere il caro e vecchio divano di casa l’unico posto sicuro. Unica vedetta da cui poter tenere sotto controllo l’incontrollabile e perturbante del reale… alle volte trono da cui poter misconoscere l’alterità che ci abita. Soffermiamoci allora su queste evidenze e pensiamo, magari solo per ipotesi, che la chiave di volta si trovi proprio davanti ai nostri occhi. Infatti, esaminando con la dovuta cura il dispositivo televisivo, vengono messi in luce molti dei suoi aspetti che, se pur assolutamente chiari ed evidenti, proprio per il loro palese manifestarsi rischiano di produrre l’effetto contrario restando in ombra. Non a caso l’autore del libro sopra citato, per la comprensione di questa controversa dinamica, rimanda ad una lettura che Jacques Lacan propone della famosa novella – La lettera rubata – dello scrittore statunitense Edgar Allan Poe: “ciò che appare alla vista in maniera eclatante tende, proprio per il fatto di trovarsi in primo piano, ad essere invisibile“. Ed indubbiamente, la discussione nel quale ci stiamo addentrando riguarda un dispositivo che, dagli anni cinquanta in poi (in Italia), vide i suoi ritmi di diffusione crescere in maniera esponenziale, entrando in casa della stragrande maggioranza della popolazione e piazzandosi agli occhi di tutti.
Il perverso mondo dello spettacolo
Adesso vorrei passare a descrivere due aspetti prettamente perversi, uno riguardante il telespettatore, generato dall’offerta televisiva, ed uno riguardante in particolare i reality show. Ma prima mi pare doveroso farsi una domanda di rilevante importanza: precisamente, cosa accade quando accendiamo la televisione? Bene, con un semplice clic il mondo ci entra in casa. Non più noi a dover uscire per conoscere ciò che sta fuori, ma ciò che sta fuori entra tra le nostre quattro mura e si esibisce a nostro (tele)comando. Ovviamente parliamo di un mondo spezzettato, frammentato, ben filtrato, mediato e controllato a dovere che ci mostra la sua pseudo realtà immaginaria tirata su ad hoc. Parliamo di una realtà virtuale all’interno della quale precisi contenuti vengono eliminati ed altri alterati con tagli, montaggi, inquadrature e operazioni di mediazione che si frappongono tra noi ed i vari frammenti di realtà ben selezionati. Tale realtà spesso è costruita per essere meno perturbante del mondo reale che sta li fuori e ci convince di poter fare conoscenza, attraverso lo schermo, del mondo esterno. Ovviamente parliamo di una conoscenza (che per poter realmente esistere implicherebbe la possibilità di fare esperienza) fittizia, immaginaria. Più che conoscenza, in questo caso, si ha a che fare solo con un mucchio di brandelli di immagini ben ritagliate ed accuratamente selezionate. L’imprevedibilità dell’incontro con l’Altro, la contaminazione con l’alterità (componenti proprie del mondo reale), tutto messo fuori gioco. E quindi in barba a Darwin ed alle sue navigazioni in mare volte all’esplorazione della realtà. In barba a chi, come Alexandre Olivier Exquemelin (proprio come scriveva Emanuele Coco nel suo libro “Dal cosmo al mare. La naturalizzazione del mito e la funzione filosofica…”), si trovò da impiegato per la Compagnia francese delle indie a schiavo ed infine pirata protagonista di numerose odissee in perduti mari e che, come cita lo zoologo francese Frédéric Cuvier, fu tra i primi a fornire descrizioni dettagliate del lamantino e della bontà del latte prodotto dalla femmina di tale specie. In barba a tutti gli esploratori ed i viaggiatori che, per inseguire la verità, salparono gli sconosciuti ed incerti mari con il solo desiderio di conoscenza a fargli da bussola. Oggigiorno, perlopiù, ci ritroviamo ad esplorare profili social e canali televisivi, magari indignandoci saltuariamente (ma solo il tanto che basta) per ciò che non ci garba più di tanto, restando comunque ben composti sul divano. Come descrive il libro di Lolli, quello creato dalla televisione è “un mondo disattivato della sua componente di imprevedibilità. Che persiste anche a televisore spento.” Ecco all’ora come un meccanismo psichico ben preciso, caratteristico del soggetto perverso e prodotto da un diniego della realtà, si genera nel telespettatore. Parliamo di una scissione dell’io. In breve, la nostra coscienza fa i conti con due realtà che coesistono l’una accanto all’altra: una spesso costituita dalle fatiche della vita quotidiana e dalle responsabilità che questa comporta (e da cui non possiamo spesso esimerci) ed una ricca di successi, gratificante e spesso emozionante. Quest’ultima, solitamente, è generata anche grazie ad una serie di identificazioni che mettiamo in atto nei confronti dei personaggi televisivi e delle loro storie (ed in qualsiasi momento può esser messa in stand-by). Si noti come questa nuova realtà (virtuale) non rimpiazza mai la realtà reale, quindi non la nega. In questo modo, ogni volta che il soggetto si sentirà frustrato per qualcosa che non va nella sua vita reale, potrà rifugiarsi in quella virtuale. Abbiamo quindi chiarito i primi tratti perversi che la relazione col mezzo televisivo genera in noi. Proprio una bella e buona Ichspaltung! Due mondi, due realtà, una delle quali particolarmente capace di “risarcire il soggetto dalla deludente normalità alla quale è condannato“. Un altro aspetto assolutamente perverso lo ritroviamo soprattutto in alcuni contenuti televisivi. Esemplari a tal proposito sono i reality show che, con i loro “moduli televisivi collaudati“, riescono a stimolare i sentimenti, le emozioni, ma che dico, “le pulsioni più profonde” del soggetto e a mantenerlo incollato davanti lo schermo favorendo il suo sonno da telespettatore. Mi pare giusto, al riguardo, citare due particolari operazioni (riportate nel libro di Lolli) dalla logica perversa che ritroviamo nei reality (ma spesso estendibili al mondo dello spettacolo): “identificazione con il fallo immaginario e assoggettamento al godimento dell’Altro”. Il perverso, in effetti, è colui che si propone come ciò che manca all’Altro, come fallo immaginario, solamente così potrà avere la certezza di ottenerne il gradimento – citando Lacan “occorre farsi strumento del godimento dell’Altro”, farsi oggetto di godimento dei telespettatori. Non vi è alcuna regola per fare ciò, l’importante è far godere l’Altro anche, come spesso accade, a costo di infliggere delle sofferenze ai proprio simili (solitamente gli altri concorrenti in gara). Va comunque ribadito come, in questo meccanismo, il perverso è solo un oggetto, un mezzo per il godimento dei telespettatori – assieme agli “imprenditori che da tutto il processo traggono il vero vantaggio”.
O soli o umani!
L’assidua fruizione del dispositivo televisivo ha certamente modificato molti punti dell’assetto relazionale. Ciò ha inciso, ovviamente, sulla qualità dei legami. In famiglia l’apparecchio diventa spesso il “punto di fuga prospettico“, ciò che si costituisce è “un rapporto individuale col televisore che si traduce nella solitudine del telespettatore”. Ma sicuramente, se oggi il concetto di condivisione è stato rimpiazzato da quello di fruizione la responsabilità non è unicamente della televisione. Una chiusura monadica, la solitudine del consumatore, l’esaltazione dell’individuo… Tutta una serie di cambiamenti propri della nostra cultura e che ritroviamo negli ideali stessi nei quali siamo avvolti, ideali che si manifestano pienamente in una prospettiva postumanista (dove la natura umana viene sempre più alterata dal progresso della tecnica) e che vengono, ad esempio, ben rispecchiati dalle pubblicità che vediamo ed ascoltiamo ovunque. In questa cultura le relazioni – ciò che caratterizza l’essere umano in quanto tale – vengono bypassate se non per il proprio tornaconto. Scontato sarebbe citare Hobbes ed il famoso diritto di natura che ciascuno possiede nel rivendicare ogni cosa, perfino la vita altrui (logica quest’ultima che riecheggia particolarmente nei reality show). A tal proposito, assolutamente esplicativi sembrano essere il termine narcinismo (citato da Lolli nel testo in questione) coniato dalla psicoanalista Colette Soler e le varie pubblicità che ci circondano e ci seguono ovunque (di cui la televisione è solo uno dei mezzi di diffusione). Le pubblicità, spesso, sembrano offrirci oggetti gadget con cui avere finalmente la possibilità di giungere alla condizione di completa perfezione, non avendo quindi più bisogno di alcun legame relazionale per superare le nostre difficoltà. Si noti poi come la pubblicità agisca prima stimolando una mancanza (alquanto fittizia) e poi proponga il prodotto per soddisfare tale bisogno. Due sono gli aspetti che, all’apparenza, possono sembrare simili e che vorrei evidenziare. Uno è quello di generare in noi un banale bisogno che in realtà non abbiamo, l’altro è quello di stimolare e far breccia sulla nostra strutturale mancanza che, in quanto esseri umani, possediamo (anche se non tutti) costituzionalmente dal giorno in cui, facendo i conti con le regole della nostra cultura, abbiamo dovuto rinunciare e perdere una parte del nostro godimento totale. In ogni caso, ciò che ci viene proposto è un oggetto che possa saturare questa mancanza in maniera istantanea, spingendoci a ricercare immediate gratificazioni in oggetti muti e intercambiabili (quando invece dovremmo indirizzare, il più delle volte, tale ricerca verso altre persone). Il tutto è anche facilitato dalla messa in gioco delle nostre paure primarie. Infatti, se mi rivolgo agli oggetti per avere gratificazione non sarò esposto al pericolo del rifiuto e all’angoscia a cui siamo naturalmente esposti nella relazione con l’Altro (per via dell’imprevedibilità che ci differenzia ulteriormente dagli animali). Per fare un esempio mi vengono in mente proprio le variopinte pubblicità della Red Bull che, nelle sue fantasiose varietà, rivendica non solo l’opportunità di fare Uno col prodotto divenendo quindi completo, non mancante di nulla e cancellando la necessità di stabilire legami, ma pare offrire anche la possibilità di riuscire a controllare ciò che vi è di imprevedibile nelle nostre vite reali. In sostanza: bevi il nostro prodotto, non sarai mai stanco, sarai sempre attivo, sarai il più intelligente di tutta la savana, indipendente da tutto e tutti! e se un leone sta per attaccarti… non avrai più bisogno di fare gruppo con gli altri (non ti serviranno legami che possano garantirti una stabilità), ti basterà semplicemente essere più scaltro degli altri…”. Conseguenze? Forse lentamente ed inesorabilmente si smetterà di essere umani e proprio come nella pubblicità in questione si diventerà animali. Gli animali infatti stanno soli, al limite in branco (per potersi meglio difendere) – ma insomma, avete mai visto delle linci darsi appuntamento dopo cena per andare al Jazz Club della foresta ad ascoltare un po’ di buona musica assieme?! Particolarmente descrittivo e riassuntivo appare quindi il neologismo ‘narcinismo‘ che Colette Soler ha coniato facendo riferimento a due aspetti peculiari della nostra epoca contemporanea. Con ‘narcinismo‘ si vuole infatti evocare una congiunzione tra narcisismo e cinismo che, come ormai comprendiamo, vediamo particolarmente brillare in tutto il suo splendore in un qualsiasi show televisivo. Doveroso è allora far nuovamente riferimento alla nomination. Nella nomination i concorrenti dello show che, fino a quel momento compagni di avventura, hanno affrontato assieme le varie difficoltà stringendo magari dei legami sentimentali, si faranno fuori a vicenda nominando e decretando chi tra di loro dovrà esser sottoposto al severo giudizio del pubblico. In ogni caso, la necessità di affermazione narcisistica rende oggi accettabili comportamenti di qualsiasi tipo (soprattutto a discapito dei legami sociali) all’insegna del cinismo. Tutti i valori un tempo ben esaltati, propri del benessere e del convivere sociale, vengono oggi sempre meno salvaguardati, anzi, tendono sempre più ad esser sostituiti in nome del proprio tornaconto personale, decretando quella che Charles Melman ha definito come nuova economia psichica.