Perfezionismo tra superamento di se stessi e prevaricazione dell’altro. La lezione di Hobbes e Rousseau

Uno studio della York St John University, pubblicato su Psychological Bulletin, evidenzia come dal 1980 sia esponenzialmente aumentata la ricerca della perfezione fisica e mentale tra i giovani. I tipi di perfezionismo sono stati catalogati in base ai diversi orientamenti: quello verso se stessi, che impone un’irrazionale e continua corsa per superarsi di volta in volta e prescritto socialmente, ossia relativo alle eccessive aspettative da parte degli altri. Vi è inoltre un tipo di perfezionismo orientato verso gli altri: Thomas Curran sottolinea che la competizione tra i più giovani è dovuta alla ricerca di sicurezza, connessioni sociali e bisogno di sentirsi attribuita una qualche forma di valore.

Ma fino a quale punto il perfezionismo può essere considerato una spinta propulsiva e positiva verso una migliore versione di se stessi? Quando il perfezionismo diventa necessità di prevaricazione dell’altro?

Questioni di questo genere rendono necessaria un’analisi più profonda ed esule, almeno inizialmente, dal discorso strettamente legato alla perfezione: cos’è l’essere umano? Da dove nasce il desiderio di prevaricazione che si rivolge da un lato verso se stessi e dall’altro verso gli altri? Le proposte filosofiche e antropologiche di Rousseau e Hobbes possono guidarci in questa analisi.

Hobbes: la vita come corsa per superare l’altro

Alla celebre teoria dello Zoon Politikon proposta nella Politica aristotelica, si contrappone nel XVII secolo Hobbes: i la padre del contrattualismo. La comunità, secondo il suo parere, non nasce da un naturale impulso alla socievolezza come era per Aristotele: per Hobbes la natura è priva di fini interni, è costituita dalle componenti di corpo e moto e null’altro. Ecco perchè non c’è nulla di teleologicamente orientato nella proposta hobbesiana: il meccanicismo sfugge da tutti i tentativi di composizione di strutturazione e composizione ordinata del mondo umano e del mondo naturale ad esso circostante.

Homo homini lupus
Fonte: Flickr

Tralasciando la teoria politica hobbesiana legata alla figura del Leviatano come garante della sicurezza collettiva per superare lo stato di natura del tutto contro tutti, concentriamoci su una metafora offerta dallo stesso Hobbes nel primo capitolo di Elementi di legge naturale e politica del 1640: la vita dell’uomo è una corsa.  Da quest’immagine emerge un altro concezione individualistica ed agonale  della natura umana: la felicità corrisponde nel superamento dell’altro, che è nostro competitore, gli umani vivono per superarsi reciprocamente, guidati dalle due grandi metapassioni della ricerca dell’utile e della gloria. Proprio a quest’ultima si lega la teoria del riso e della felicità hobbesiana: vedere un altro cadere provoca la nostra ilarità e la gloria, la più grande soddisfazione, deriva dal lasciare il caduto alle nostre spalle e correre a perdifiato, girando di volta in volta lo sguardo per ricordare quanto siamo migliori di qualcun altro.

Rousseau: la natura umana tra perfettibilità, amore per se stessa ed amor proprio

Nel Discorso sulle scienze e sulle arti del 1749 Rousseau propone un’antropologia che mira a descrivere l’essenza della natura umana attraverso la distinzione di quattro diversi principi o momenti: la libertà, la capacità di perfezionarsi, l’autoconservazione e la pietà. Focalizziamoci sulla seconda: Rousseau si chiede per quale motivo l’essere umano sia l’unico in natura a rimbecillirsi, a differenza degli altri animali; da qui la congettura che l’essere umano sia dotato di una facoltà caratteristica propria: la perfettibilità denota l’essere umano in quanto tale drammaticamente. Rousseau, infatti, si dimostra critico nei confronti della perfettibilità sia a livello individuale che a livello di specie e collettivo: essa porterà da un lato al rimbecillimento e dall’altro all’amore decadenza totale.

Rousseau
Fonte:biografie.net

La caratteristica dell’autoconservazione è assimilabile e quasi del tutto sovrapponibile alla teoria di Hobbes, ma Rousseau rintraccia nell’uomo un altro principio, che va oltre il meccanicismo e l’antropologia negativa hobbesiana: il sentimento della pietà, una dispozione presente negli esseri umani tanti quanti negli animali. A tal proposito Rousseau riprende e rielabora la distinzione presente nella Favola delle api di Mendeville tra amore di se stessi ed amor proprio: il primo è riconducibile ad un sentimento naturale e necessario di autoconservazione, il secondo è un sentimento artificioso, nato nella dimensione sociale, che trae la sua sorgente nell’onore, esso non esiste nello stato di natura. Viviamo negli occhi degli altri, oscilliamo tra la continua ricerca di suscitare la loro approvazione ed ammirazione ed il desiderio di risultare migliori di loro, superandoli e lasciandoseli alle spalle, come direbbe Hobbes.

Chi si accontenta gode? I rischi del perfezionismo

Chi s’accontenta gode? Secondo lo psicologo Maslow all’apice della piramide dei bisogni risiede il bisognino di autorealizzazione: come lo si può raggiungere semplicemente accontentandosi? È impossibile, così come è impossibile per l’essere umano adagiarsi su ciò che è senza tentare di superarsi. E allora come perseguire il proprio bisogno di realizzazione e miglioramento senza degenerare in un’ossessiva e malsana ricerca della perfezione?

Fonte: psicoadvisor.com

Il modo più comune di combattere il perfezionismo si basa sullo stoicismo e sulla terapia cognitivo-comportamentale: il perfezionista è costantemente angosciato dal proprio futuro, consapevole del fatto che una volta superata una sfida, se ne aprirà una nuova e così via, all’infinito. Ma è giusto capire che una sfida non superata non corrisponde necessariamente ad una catastrofe: la perfezione è una causa persa in partenza. Guardando  indietro ci rendiamo conto del fatto che sono più i treni persi di quelli presi, sono più le competenze non raggiunge di quelle realizzate e così via. La vita, di fatto, è un fallimento per tutti: per quanto possiamo risultare eccellenti in un ambito, non lo saremo mai in tutti gli altri e in questo non c’è nulla di male. Bisogna anche saper perdere.

Maria Letizia Morotti

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