Una dose eccessiva di informazione può essere un bene o un male?
Informarsi fa bene alla salute, ma può diventare un rischio proprio per la nostra salute stessa nel momento in cui i nostri cellulari vengono infettati dal virus dell’infodemia. Che un’epidemia ci debba educare all’igiene è assodato, ma il panico morale resta una condanna a vita per molti.
QUANDO UNA NOTIZIA ASSUME MILLE FACCE
Quando parliamo di infodemia, intendiamo una quantità eccessiva di voci su una determinata notizia rendendola di difficile interpretazione, poichè sullo stesso argomento circolano dati inaccurati o totalmente errati, sfociando nella fake news, tramutando una notizia in una lettura di difficile comprensione. D’altronde basta analizzare la sua etimologia, un neologismo nato proprio dalla errata circolazione delle notizie durante l’epidemia di SARS del 2002-2004, dall’unione delle parole “informazione” ed “epidemia”. Proprio cosi, un’epidemia di informazioni per cui non esiste quarta o quinta dose, ma solo la giusta conoscenza delle fonti che diventano la nostra Amuchina all’epidemia del panico morale. Il termine apparve per la prima volta in un articolo pubblicato sul Washington Post dal titolo “When the buzz bites back” scritto dal politico, docente e giornalista David J. Rothkopf nel Maggio del 2003. Nell’articolo, Rothkopf fa riferimento al panico generato dalle notizie infondate che hanno contribuito a rendere il lettore più timoroso per il suo futuro, visto che i primi anni duemila furono interessati da attacchi terroristici, guerra in Iraq e la diffusione SARS e, per tale ragione, le notizie dovevano essere diffuse con un briciolo di buonsenso, onde evitare di generare panico morale. Ma non solo, poiché sempre nell’articolo osserva con preoccupazione quelli che erano i new media dell’epoca, perché li considera sia come strumenti essenziali per la diffusione delle notizie, ma anche come una strada pericolosa che porta la disinformazione direttamente nelle case dei cittadini. E fa sorridere pensare al fatto che lui si stesse riferendo, giustamente, alla tecnologia della sua epoca: un pesante Lenovo R61 che, come browser, poteva avere soltanto un lentissimo Internet Explorer, che aveva le straordinarie potenzialità di diffondere una notizia in due giorni. Quello era un potenziale pericolo? Figuriamoci cosa avrebbe potuto pensare Rothkopf nel vedere i nostri smartphone di ultima generazione con almeno una ventina di applicazioni che diventano il nostro pozzo per estrarre qualsiasi notizie, tralasciando tutte le testate che si sono digitalizzate pronte a fornire su un piatto d’argento qualsiasi tipo di informazione. Meraviglioso, se solo non fosse che l’accumulo eccessivo di notizie su una tematica cara all’opinione pubblica quali la politica, un caso di cronaca o un’emergenza sanitaria, ne discerne una sensazione di disorientamento che, esattamente come è stato con la pandemia da Covid-19, provocherebbe comportamenti irresponsabili e, soprattutto, irrimediabili.
I SOCIAL COME LEXOTAN PER LA PAURA
Da quando esistono i social network siamo i primi ad aprire il telefono per informarci su una notizia piuttosto che uscire di casa per recarci presso l’edicola più vicina. Gli stessi giornali, da quando esiste internet, hanno visto un incredibile calo delle vendite, portando le maggiori testate italiane a provare la via del web. I risultati sono stati incredibili, in quanto le persone cominciarono ad informarsi attraverso internet, dimostrando che il problema non fosse la mancata voglia di volersi informarsi, in quanto, come dice un detto “se Maometto non va dalla montagna è la montagna che va da Maometto”. Ma proprio come ogni cosa è facile che essa tramuti e degeneri, portando anche le più rinomate testate a diffondere notizie infondate o non approfondite sufficientemente pur di arrivare per primi ad informare il lettore. Se da un lato lo scopo dei giornali, fisici o online che siano, è quello di incrementare le vendite e dimostrare l’efficienza del proprio lavoro; dall’altro lato abbiamo la rappresentazione del povero lettore ingenuo che, impaurito di quello che sta accadendo intorno a lui, e che quindi da bravo cittadino vuole capire quello che sta accadendo nel mondo, soprattutto quando si tratta di questioni come emergenze sanitarie o guerre appena scoppiate, si precipita sui social per trarne informazioni in merito. Per tale ragione, social network come Instagram diventano la nostra edicola, mentre applicazioni come Telegram o Facebook il luogo di ritrovo per discutere della notizia in questione, ma ogni dose eccessiva può portare a danni irreparabili: ogni testata comincia a pubblicare uno o più articoli su un determinato argomento, ma da punti di vista differenti, generando un incredibile confusione. L’utente si ritrova circondato di dati allarmanti da cui cerca di proteggersi a modo suo, mentre non solo i casi Covid, ma anche quelli degli incoscienti, continuano ad aumentare.
“TUTTE LE BRONCHITI SONO COVID”
Leggere le giuste testate e le voci di chi ne sa più in materia rispetto a vostro cugino Mario Rossi che crede di avere la cura per il cancro nel garage di casa sua è fondamentale, ma in tempi difficili qualsiasi Mario Rossi non aspetterebbe altro che lucrarci sopra: “Mascherina si? mascherina no? Ho letto che bere acqua calda fa affogare il virus che nel frattempo sta nei miei polmoni. Ma quindi il green pass dove lo devo usare? Ho letto che di tutti i vaccini solo Pfizer funziona, gli altri sono difettosi. Sei negativa? Si ma comunque manteniamo la distanza”. Qual è il risulato? Semplice, che per molto tempo ancora vedremo adulti scambiare un raffreddore per Covid e andare in giro a Luglio con la FFP2 mentre sono soli in macchina. Quale sarebbe dovuto essere invece il risultato? Semplice, una maggiore responsabilità. Ma la diagnosi di caparbietà resta confermata per coloro che reputano una diagnosi di bronchite come errata poiché “Tutte le bronchiti sono Covid”.