Incomprensibili, sfuggenti, spesso incontrollabili, i sentimenti rappresentano alcuni tra gli elementi fondamentali e costitutivi dell’esistenza umana. L’arte da tempo immemore, dalle sue forme più primitive fino a quelle più sofisticate ed evolute, tenta di rappresentare e dare voce al turbinio incessante di emozioni che abita e sconvolge l’animo umano, al contempo tanto comune e universalmente condiviso, quanto occulto e misterioso, mai davvero accessibile. I sentimenti si intrecciano, si fondono e innestano l’uno sull’altro al punto da unire, qualche volta, due opposti apparentemente inconciliabili in un’unica, dolce, contraddizione. Quella contraddizione che costituisce la magia delle emozioni autentiche, ma anche la malattia che dà vita ai cosiddetti “sentimenti tossici”. È quando l’amore si mescola all’ossessione che il sentimento più puro di tutti, anche quando difficile e complesso, si trasforma in un insensato tormento, in una gabbia stretta e claustrofobica, nel macigno opprimente del possesso. Gli amanti diventano nemici che gareggiano nel ferirsi reciprocamente, che giocano a stabilire chi sia la vittima e chi il carnefice, senza capire di essere entrambi i giustizieri dell’amore. Risucchiati nel vortice della loro follia, complici della vicendevole disfatta, si esauriscono l’uno nell’altro, bruciando fino a lasciare di sé niente più che la cenere.
“Sylvia”, Leonard Michaels: amore come auto-distruzione
“Come un bambino in preda a un accesso di collera, lei restava impigliata nel suono delle proprie urla. Urlava perché stava urlando, urlando, urlando, come se costruisse una sua stanzetta di rabbia, con se stessa al centro” Leonard Michaels, Sylvia
Un libro potente, viscerale, devastante nella sua nuda sincerità. Sylvia e Leonard sono due giovani studenti agli inizi degli anni ’60. Come due giovani studenti si incontrano per caso e, per caso, si innamorano. “Cominciò così, senza un inizio” (Op. cit.). Ma ben presto la loro relazione si trasforma in un inferno, accettato e condiviso, da cui nessuno dei due accenna ad uscire. Si adagiano e vivono comodi nella loro follia di odio e amore. È Sylvia l’origine della metamorfosi allucinante (e allucinata) del loro matrimonio: ossessionata da Leonard e alla ricerca disperata del suo amore, tenta di scalare, riuscendoci, la vetta dei suoi pensieri per collocarsi al centro di essi, burattinaia incontrastata di un’inerme marionetta. Sylvia soffre di una gelosia maniacale e incontrollata ma non nei confronti di altre donne, praticamente inesistenti all’interno del romanzo, ma di qualsiasi cosa che catturi l’attenzione di Leonard, distogliendola da lei. È gelosa dei suoi amici e dei suoi genitori, con cui crede di dover competere, e perfino del suo stentato lavoro di scrittore, dal quale si sente dolorosamente esclusa. Sylvia non vuole amore, Sylvia vuole una devozione assoluta e totalizzante, il sacrificio del mondo intero in suo favore. Ma se è tossico il sentimento di lei, quello di Leonard lo è altrettanto: sedotto magneticamente dal suo amore malato, dalla sua ossessione incatenante, Leonard sviluppa una follia diversa da quella di sua moglie ma ad essa complementare. Regola e misura la sua vita su quelle liti insensate, che tanto lo turbano e lo attirano, imprigionandolo. Vive per proteggere la fragile psiche di Sylvia, detestando al contempo la propria deplorevole normalità. La scrittura asciutta, onesta e disarmante di Leonard Michaels orchestra l’esperienza autobiografica con sguardo lucido e immediato, non privo di equilibrato lirismo. Ormai distante da quel terribile capitolo della propria esistenza, con uno stile ipnotico nella sua sincera autenticità, l’autore conduce la vicenda alla tragedia del suicidio di Sylvia, ultimo, estremo gesto per legarlo definitivamente a lei.
“Aveva sempre avuto ragione su tutto. Io avevo sempre avuto torto. L’amavo. Non potevo vivere senza di lei. Me lo aveva dimostrato. Ne ero convinto. Non erano necessarie altre prove, solo che aprisse gli occhi e vivesse. Sarei stato come voleva lei. Avrei fatto ciò che voleva e quello sarebbe stato anche ciò che volevo io. Avrebbe capito che l’amavo e che l’avevo sempre amata”.
“L’animale morente”, Philip Roth: la perversione erotica come espressione d’amore
“Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l’amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due”, Philip Roth, L’animale morente
Sarebbe riduttivo individuare nell’anticonvenzionale storia d’amore che vi si svolge la grandezza del romanzo, che nel breve respiro di poche pagine spazia dai sentimenti, alla politica e alla riflessione introspettiva. Ma, innegabilmente, la relazione tra l’anziano professore David Keseph e la sua studentessa ventiquattrenne Consuela Castillo, dà luce ad una concezione dell’amore originale, intensa e penetrante. L’io narrante, che si rivolge ad un misterioso interlocutore, voce d’appoggio della sua coscienza, è attratto dalla bellezza quasi violenta di Consuela resa ancora più desiderabile dalla sua toccante vicenda personale, quella di una famiglia esiliata dalla Cuba di Fidel Castro. Seppur ammirando la ragazza nell’intera sensualità del suo corpo, David fa dei suoi seni oggetto di adorazione quasi feticistica, trasformandoli, sineddochicamente, nella raffigurazione emblematica di tutta la sua persona. Il romanzo è percorso da un vitalismo erotico che fa del corpo la porta d’accesso al mistero dell’Altro, del Diverso, dell’Inconoscibile. In modo quasi bestiale e animalesco (come suggerisce il titolo stesso), la carne e la superificie sono, dell’Altro, l’unica cosa davvero comprensibile, il veicolo per raggiungere ciò che si cela sotto la scorza. Il corpo diventa, così, un feticcio degno di venerazione, il simulacro dell’amore più spirituale e metafisico. È questo ciò che l’io narrante intende comunicare quando, inginocchiandosi ai piedi di Consuela, lecca voluttuosamente il sangue mestruale che scivola tra le sue gambe, essenza pura e sinceramente umana, perché bassa e reale, del suo vivere ed essere donna. Ma non c’è spazio per la gioia in questo inno alla femminilità, in questa storia resa impossibile da un’irreversibile distanza di età: Consuela si ammala di cancro e i suoi seni, che permeano l’erotismo sentimentale del romanzo come sovrani incontrastati, dovranno essere asportati. David, disperato, le rimane accanto, impossibilitato a rinunciare ad un amore ormai viscerale e totale. Con la rimozione del seno Roth rappresenta metaforicamente la fine del vitalismo sensuale, il deperimento fisico, e quindi emotivo e spirituale, del corpo. Rappresenta la tragedia del tempo che priva l’uomo dei suoi istinti primordiali e la fine di essi corrisponde, emblematicamente, alla morte.
“Nel corpo, non meno che nel cervello, è racchiusa la storia della vita”
Edna O’Brien. Frase d’introduzione al libro scelta da Roth.
Maria Chiara Litterio