La storia d’amore di Orfeo ed Euridice: l’amore perduto nel mito, in un brano di Vecchioni e nel Poema a fumetti di Buzzati. Ma perché Orfeo si è voltato pur sapendo che così avrebbe perso la sua Euridice?

Il viaggio di Orfeo è fisico ma anche, e soprattutto, mentale: discende negli Inferi ma anche dentro di sé, un percorso tutto interiore, negli abissi più bui e attraverso i ricordi passati. Si dice: abyssus abyssum invocat e toccato il fondo si può decidere di rimanere lì a ristagnare oppure trovare la forza di risalire. E Orfeo intanto canta, perché la sua arte possa rendere eterno il loro amore. E’ questo il regalo che Orfeo fa ad Euridice.

Il mito di Orfeo ed Euridice
Una delle più belle storie d’amore della mitologia greca è il mito di Orfeo ed Euridice. Molto tempo prima di Omero, Orpheus Euridicem ninpham amavit: Orfeo, figlio della Musa Calliope e del re della Tracia Eagro (o secondo altre versioni di Apollo), amava Euridice, una bellissima ninfa terrestre, del ramo delle Auloniadi, le quali vivevano nelle valli fluviali e tra i pascoli di montagna. I due si sposarono e Orfeo, il primo cantautore di cui si ha notizia, abilissimo con la lira, la deliziava ogni giorno con delle canzoni d’amore a lei dedicate, che ammaliavano chiunque le ascoltasse. Ma le ninfe, si sa, essendo dee in forma di fanciulle eternamente giovani, attiravano gli sguardi, spesso indesiderati, di molti: infatti Aristeo, un pastore figlio anch’egli di Apollo, notò la giovane e subito se ne invaghì. Un giorno, mentre Euridice stava facendo il bagno, nuda nel fiume Peneo in Tessaglia, Aristeo, che si era nascosto dietro ad un cespuglio, sbucò fuori all’improvviso ed iniziò ad inseguirla. La giovane cercò di sfuggirgli più volte ma nella corsa calpestò una vipera che la morse alla caviglia: morì all’istante.
Orfeo impazzì di dolore: non poteva credere di aver perso il suo amore. Pianse per giorni e si disperò a tal punto che insieme a lui piansero i leoni, le montagne e le querce. Finché non gli venne in mente una folle idea: decise di discendere negli Inferi per andarsi a riprendere colei che troppo presto l’aveva lasciato. Si infilò in un cunicolo in fondo a una caverna e iniziò la sua catabasi. Giunto sulla riva del “fiume dell’odio“, lo Stige, che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, s’imbatté in Caronte, che non appena sentì Orfeo cantare, lo accompagnò gratis remando addirittura egli stesso. Incontrò poi Cerbero, il gigantesco mastino a tre teste, posto a guardia dell’Oltretomba: Ovidio, nel X libro delle Metamorfosi, ci racconta che Orfeo riuscì ad ammansire anche lui con l’incantevole musica della sua lira, ormai vero e proprio lasciapassare. E pare che tutti, attratti dal suo canto terreno, accorsero ad ascoltare Orfeo e che i tormenti dei dannati cessarono. Egli giunse finalmente al cospetto di Ade e Persefone, Signori delle ombre e dei morti. Orfeo, condotto fin lì dall’amore per sua moglie, si mise ancora una volta a cantare. Poliziano immagina che egli si appellò all’amore che aveva portato Ade a rapire Persefone, sostenendo che Euridice non avesse vissuto i suoi iustos annos, e che disse: «Se memoria alcuna in voi si serba del vostro celebrato antico amore, se la vecchia rapina avete in mente, Euridice mia bella mi renderete». Ade si commosse e acconsentì alla richiesta ma ad una sola condizione: Orfeo non si sarebbe dovuto voltare per guardare Euridice finché non fossero giunti alla luce del sole, «che lei ti segua per la via ceca» disse. Orfeo prese per mano Euridice, avvolta in un velo bianco, e i due, seguiti da Ermes che avrebbe dovuto controllare che il patto venisse rispettato, iniziarono la risalita attraverso un buio sentiero. Si sa, nelle tenebre ci si perde facilmente e si è tentati di accendere la luce: Orfeo era così preoccupato che Euridice potesse smettere di seguirlo che avrebbe voluto voltarsi, ma non osò. Da questo punto il mito si dirama in diverse versioni ma tutte accomunate dallo stesso finale. Euridice disse: «Amore mio, perché non ti volti? Sono diventata così brutta che non mi vuoi più guardare? Abbracciami, ho freddo!». Orfeo resistette alla tentazione e, non appena sentì il calore del sole sul suo viso, finalmente si voltò ma Euridice, zoppicante per il dolore del morso del serpente, era rimasta indietro. Per pochi passi, la perse. Per Rainer Maria Rilke, invece, Euridice non era più la donna bionda che nei canti del poeta era apparsa: nella sua poesia Orfeo Euridice Ermes, egli sostiene che non appena Ermes disse ad Euridice che Orfeo si era voltato, lei rispose «Ma chi?». Morendo, lei aveva dimenticato tutto. Virgilio, nel libro IV delle Georgiche, ci racconta che Euridice d’improvviso svanì in un profondo nulla, come fumo che si dissolve in un lieve soffio di vento. Orfeo aveva rovinato tutto per il timore che potesse farlo qualcun altro, aveva così paura di perderla che la perse davvero: Euridice morì per la seconda volta e scomparve per sempre nelle tenebre. Orfeo, distrutto, si rifugiò sul monte Rodope, in Tracia: fedele al ricordo del suo amore perduto, cantava, rifiutava le donne e si dedicava solo ai fanciulli (da questo episodio probabilmente ha avuto origine il modo di dire «canta che ti passa» e forse proprio da qui nasce il concetto della pederastia). Un giorno si imbatté in un corteo di Menadi ubriache che, rifiutate, lo fecero a pezzi gettando le sue membra per la campagna e la sua testa nel fiume Ebro, che cadde proprio sulla sua lira. Virgilio ci racconta che continuò a cantare e ripeteva: «Euridice! O mia misera Euridice!» e lungo il fiume le rive ripetevano anch’esse: «Euridice!».

L’Orfeo nel brano di Vecchioni
Ma perché Orfeo si è voltato? Forse si era reso conto che non si poteva forzare il tempo che gli era già stato concesso. Forse decidendo di voltarsi e di lasciarla andare via, ha deciso di apprezzare ciò che aveva vissuto con lei, prendendo atto che non sarebbe potuto tornare ma che nessuno glielo avrebbe potuto togliere. Non è mai un bene rimanere attaccati al passato. E forse è quello che successe ad Orfeo, forse era impazzito dopo la perdita dell’amata, forse non c’era stata nessuna discesa negli Inferi e non stava portando con sé la sua Euridice, ma le sue proiezioni, i suoi ricordi, le sue emozioni, che non corrispondevano alla realtà. Forse doveva solo decidere di lasciarla andare via e schiudersi dal suo dolore. Roberto Vecchioni nella terza canzone dell’album Blumùn del 1993, intitolata Euridice, plasma un’Orfeo che, a differenza del mito, decide di voltarsi verso il passato, verso ciò che ha perduto. La sua Euridice «aveva vent’anni e faceva l’amore» quando calpestò quella vipera e da quel momento «nei campi di maggio, da quando è partita, non cresce più un fiore». Egli decide che di discendere negli Inferi per andarsela a riprendere o forse a darle un ultimo saluto? Cantando ricorda, con dolcezza e con rabbia, «le sue mani che erano passeri di mare, e gli occhi come incanti d’onde scivolanti ai bordi delle sere»: emerge già da questi versi l’idea della fugacità di quei momenti che ormai appartengono al passato e che scorrono come sabbia tra le dita e non si può fare niente per trattenerli. Eppure «gli uomini, lacrime nella pioggia» rimangono «aggrappati alla vita che se ne va, con tutto il furore dell’ultimo bacio, nell’ultimo giorno dell’ultimo amore» così come le madri che vedono le vele nere dei ritorni hanno compreso che il destino dei figli è lontano da loro e non possono far altro che accompagnarli, seppur lontani da loro, con la speranza che possano essere felici. Come avrebbe detto Catullo «difficile est longum subito deponere amorem»: è difficile decidere di lasciar andare via, all’improvviso, un amore ma questo si deve fare, è l’unica salvezza. Ed è proprio questo che l’Orfeo di Vecchioni, con risolutezza e dolore, decide di fare: «mi volterò», dice. Egli accetta il fatto che Euridice non ci sia più, che ciò che gli manca non esiste più, e la lascia andare «perché lei adesso è morta e là fuori ci sono la luce e i colori». Sarà sufficiente voltarsi per lasciarla alla notte e all’inverno. E si volterà, perché lui e nessun altro ha deciso di farlo. «E mi volterò perché tu sfiorirai, mi volterò perché tu sparirai, mi volterò perché già non ci sei e ti addormenterai per sempre»: con queste parole la lascerà andare via, pur serbandola sempre nel cuore, perché lì potrà rimanere per sempre.

Orfi ed Eura nel Poema a fumetti di Buzzati
Anche Dino Buzzati, scrittore e pittore, aveva dato una sua interpretazione del mito nel suo Poema a fumetti, edito nel 1969. Fa da sfondo la Milano degli anni ’60: Orfi, un chitarrista di successo, varca la soglia di una porticina in via Saterna, dopo aver ammaliato il guardiano con il suo canto, avventurandosi a cercare la sua Eura, scomparsa qualche giorno prima. Si ritrova catapultato in un mondo speculare a quello che aveva lasciato: Orfi convince il Diavolo custode, con le sue canzoni, a farsi concedere un giorno intero per cercare Eura. I due finalmente si incontrano: «Sono qui, sono venuto a prenderti» grida. Si stringono, si baciano con quella tenerezza che solo chi si è già perso conosce. Orfi la sollecita, si devono sbrigare, devono trovare la porta per uscire: guarda l’orologio e manca poco tempo. Ma Eura gli dice che non esiste nessuna porta, che non si può tornare indietro e che il tempo lì sotto non esiste, come in un sogno. Dinanzi alla fretta e all’irruenza di Orfi, Eura, stanca, si oppone: dice che le favole non esistono. I ruoli quindi si invertono ed è lei che decide di rimanere tra le ombre come unica condizione possibile, quella che impone la separazione, ineluttabile, definitiva, dei vivi dai morti, del presente dal passato. Propone quindi di salutarsi e di scambiarsi un oggetto in ricordo dell’altro: l’anello per l’orologio, così che ad entrambi possa rimanere qualcosa dell’altro, volenti o nolenti. Orfi continua a fare strada e a trascinarla verso una via d’uscita. Un ultimo dolce abbraccio con la speranza di rincontrarsi un giorno e una forza inarrestabile trascinò Orfi in superficie. Dietro la porta il guardiano tenta di convincerlo che l’avventura sotterranea altro non era che un sogno. Orfi, però, ha la prova che l’incontro con Eura era reale: nella sua mano è rimasto l’anello della giovane. E il suo orologio?

Lascio il link della canzone di Roberto Vecchioni: https://www.youtube.com/watch?v=NAXTadfSFuU