Tu cosa vedi?

Nel corso della storia, nessuna società è mai stata dominata dai messaggi visivi quanto la nostra. Eppure, paradossalmente, siamo sempre meno capaci di vedere le immagini per quello che sono. Come suggerisce Berger, da un lato accettiamo acriticamente i messaggi della pubblicità, dall’altro attribuiamo alle immagini dei quadri del passato un’importanza e un contenuto che va oltre ciò che tali immagini realmente mostrano. Quale è la realtà? Che cosa vediamo veramente?
Il cineocchio
È su questa domanda che si basa l’opera “L’uomo con la macchina da presa” del regista russo Dziga Vertov. Il suo non è tanto un film, quanto un manifesto stilistico monumentale, con salde basi nel movimento futurista, che si palesano ed esemplificano nel protagonista del suo lungometraggio: il cineocchio. Vertov si dichiara contro quel cinema nicotina, da lui così definito, che addormenta le coscienze ed è basato su storie, personaggi le cui vite vengono seguite con occhio attento. A queste il regista sovietico predilige un tipo di vita diversa, vera, priva di attori o di comparse posizionate ad hoc. La vita va colta nella sua quotidianità al volo, ed è per questo che l’occhio umano muta, subisce una trasformazione che lo porta a diventare cineocchio, presentato come upgrade della pupilla, perfettamente coerente con l’idolatrico culto dell’esaltazione tecnologica del primo Novecento.
Si fa presente agli spettatori che questo film è un esperimento di trascrizione cinematografica dei fenomeni visibili, senza didascalie, scenario e teatri di posa. Questo lavoro sperimentale ha per fine la creazione di un linguaggio cinematografico assoluto, autenticamente internazionale, sulla base di una piena separazione dal linguaggio della letteratura e del teatro.
-L’uomo con la macchina da presa (1929), Dziga Vertov
Vertov rende esplicito sin da subito che il suo è il cinema di tutti, ma che non è per tutti. È un esperimento ardito il suo, quello di rappresentare l’avanguardia espressa e documentata al tempo stesso. “L’uomo con la macchina da presa” va oltre i documentari girati per strada, fuori dalle fabbriche o nei villaggi. Insieme alle scene di vita quotidiana c’è lo stesso operatore ad essere ripreso. È lui l’oggetto dell’indagine dell’occhio scrutatore, nell’atto di spostarsi, sistemare i suoi attrezzi o semplicemente filmare. Si tratta del primo caso meta-cinema che coinvolge in un piacevole gioco tanto lo spettatore quanto il regista che, esibendo abilità ed estro con riprese innovative e giochi di montaggio esasperati quasi a voler dimostrare la propria abilità e la sua padronanza delle nuove tecnologie, si serve del film per dare impulso alla sua idea di cinema, che coincide con quella dell’occhio, e di ciò che questo vede. La verità dell’occhio che guarda diventa essa stessa una verità da osservare, innescando riflessioni sul relativismo gnoseologico che porterà poi al crollo di tutta l’impalcatura culturale novecentesca, della quale noi siamo figli.

Lo sguardo
A leggere “Questione di sguardi” di John Berger, si fa fatica a credere che sia stato scritto nel 1972. Il libro è organizzato in sette parti, in un irresistibile connubio di parole e figure, testi e quadri, tutte caratterizzate da spiccati angoli modernisti, una rinfrescante grinta e dal suo sagace studio della nostra mente attraverso quella che l’autore definisce cultura visiva. Berger è straordinariamente originale, bilanciando la pedante- ma necessaria- gravitas accademica con una giocosità deliziosa ci fa innamorare del suo raro modo di vedere il mondo. Ricopre i ruoli di filosofo, ascoltatore e anche un po’ di mago mentre fa apparire nuovi mondi e svela illusioni ottiche mediante analisi prospettiche inusuali. Dando giustizia al titolo, spiega la differenza tra guardare e vedere: i nostri occhi guardano naturalmente, ma vedono solo quando all’immagine si associa un’idea, solo quando si comprende a pieno il soggetto in questione. Il punto è proprio questo: a seconda di sesso, età, istruzione, cultura, ognuno di noi vede il soggetto in maniera diversa, pur essendo tutti dotati di occhi che funzionano allo stesso modo- anatomicamente parlando. Ma perché?

Dubitare dello sguardo
Lo stesso atto del dipingere impone all’artista di vedere il soggetto prima con i suoi occhi, e poi di riproporcelo mediante il suo quadro. Cosa cambia da realtà a rappresentazione? Quanto l’occhio dell’artista decide di filtrare, trascurare- modificando dunque il soggetto- al fine di renderlo piacevole allo spettatore, che potrà cogliere solo il punto di vista dell’artista?
Quando nel suo film Dziga Vertov dice, o meglio, fa pronunciare alla telecamera: “Sono un occhio. Un occhio meccanico…la creazione di una nuovo modo di percepire il mondo. Ti farò vedere un mondo sconosciuto” avviene il medesimo procedimento: il quadro filtra la realtà allo stesso modo del cineocchio- macchina da presa. È per questo che Berger spiega che la nostra coscienza in realtà è proprio come una macchina da presa, che da sola, si sofferma solo ciò che le interessa. Ed è per questo che Berger sottolinea il nostro dovere di scrutare il mondo da soli, dovere che va di pari passo con l’obbligo di mettersi in discussione. “Il nostro obiettivo principale è stato quello di imparare a porsi delle domande” dice, aiutandoci così ad affinare il nostro critico occhio meccanico- un’abilità essenziale nel nostro mondo, sempre più privo di narrazioni sincere, e pieno di vacue figure.
“Spero che possiate prendere in considerazione ciò che ho scritto, ma soprattutto, che ne siate scettici.”
-John Berger