Quante volte ci siamo sentiti fragili, impotenti di fronte al destino, di fronte alla morte che non conosce giustizia, età, sesso, ma travolge tutto e tutti senza distinzione. Sono sentimenti che tutti abbiamo provato almeno una volta nella vita, specie se abbiamo perso qualcuno di caro.
Quella sensazione, così unica nel suo genere, che ti fa rendere davvero conto di quanto poco valga una vita. Strano a dirsi, ma è proprio in quei momenti che pensi a quanto sia piccolo il potere dell’uomo. L’uomo non può nulla contro la morte e di questa spiazzante verità erano ben consapevoli gli antichi greci, i quali identificavano il Fato nelle tre Moire: Cloto, Lachesi e Atropo e assegnavano ad ognuna un ruolo diverso. A Cloto il compito di filare lo stame della vita, a Lachesi quello di stabilire quanto filo spetti a ciascuno, ad Atropo, infine, quello di tagliare inflessibile lo stesso al momento della morte.

Che potere spetta dunque all’uomo? L’uomo vive, ma non può scegliere di vivere in eterno. Questo è il suo destino. Questo è ciò che lo differenzia dagli dei che, immortali, vivono eternamente.
La vita umana è, per sua natura, caduca, cioè destinata a cadere, di breve durata, effimera. E l’uomo ha sempre cercato nei secoli di descrivere questa verità spiazzante e spesso si è servito di similitudini e metafore per rendere al meglio quest’idea. Uno degli esempi più antichi risale ad un’opera che ha segnato profondamente la letteratura greca e occidentale: l’Iliade, attribuita ad Omero. È qui, precisamente nel VI libro, ai versi 180-184, che la stirpe umana, con una metafora ben riuscita, viene definita pari a quella delle foglie:
“ Come è la stirpe delle foglie, così quella degli uomini. Le foglie il vento le riversa per terra e altre la selva fiorendo ne genera quando torna la primavera; così le stirpi degli uomini, l’una cresce e l’altra declina ” cit. Omero, Iliade, VI, 180-184

Secoli dopo, Mimnermo, rifacendosi ad Omero dirà in un suo celebre frammento (fr.2 W.):
” Al modo delle foglie che nel tempo fiorito della primavera nascono e ai raggi del sole rapide crescono, noi simili a quelle per un attimo abbiamo diletto del fiore dell’età, ignorando il bene e il male per dono dei Celesti. Ma le nere dèe ci stanno a fianco, l’una con il segno della grave vecchiaia e l’altra della morte. Fulmineo precipita il frutto di giovinezza, come la luce d’un giorno sulla terra. E quando il suo tempo è dileguato è meglio la morte che la vita (…) ” traduzione di Salvatore Quasimodo
A differenza dell’Iliade, qui il paragone viene usato per esprimere la brevità e la fugacità della giovinezza, che sembra essere l’unica età felice nella vita dell’uomo. La giovinezza è assimilata, nella sua brevità, alla rapidità con cui in primavera compaiono le foglie sotto i raggi del sole. Ecco che ritornano le foglie…
Il messaggio qui espresso è molto simile a quello che sarà poi il Carpe diem oraziano: un invito a godere della vita finché si è in tempo, finché si è giovani e in forze. Messaggio a tratti pessimistico, ma che rende bene l’idea di quanto veloce scorra la vita e di quale sia il nostro ruolo in tutto questo. La vita può sconvolgerci, può distruggere ogni nostro piano, ma sta a noi il compito di vivere ogni giorno al meglio, senza rimpianti e senza rimandi ad un dopo che forse non ci sarà mai.
In realtà, a pensarci bene, gli uomini e le foglie sono molto simili: entrambi sono capaci di spezzarsi con poco. Alle foglie basta una folata di vento, agli uomini anche solo un evento imprevisto, ma fatale.
E a parlarci di un evento fatale, in un modo davvero simile agli antichi greci, è un poeta italiano del Novecento: Ungaretti. Egli infatti descrive, con un uso abilissimo delle parole, la tragedia della prima guerra mondiale, che sconvolse la vita dei soldati, ma soprattutto delle persone comuni e segnò un cambiamento radicale nella concezione stessa della vita umana.
Ungaretti, con una metafora così chiara nella sua essenzialità, dirà: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Poteva usare mille parole, ha scelto di usarne meno di dieci. Perché di fronte alla cruda realtà della morte, non ci sono parole.
E le parole dolcemente si fanno musica quando la tristezza e la nostalgia per ciò che sembra non poter più ritornare ti avvolgono così tanto da farti sentire come una foglia.
“ Piove e intanto penso: ha quest’acqua un senso? Parla di un rumore prima del silenzio e poi… E’ un inverno che va via da noi, allora come spieghi questa maledetta nostalgia di tremare come foglie e poi di cadere al tappeto? D’estate muoio un po’, aspetto che ritorni l’illusione di un’estate che non so quando arriva e quando parte, se riparte (…) ”
Eleonora Raso