Nella recente cerimonia di conferimento del titolo di “eroi quotidiani civici”, il Presidente Mattarella ha parlato dell’importanza dell’altruismo nella società.

Il 17 Febbraio si è tenuta al Quirinale la premiazione di 32 “eroi quotidiani”, gente all’apparenza diversa l’una dall’altra, ma accomunata dall’opera di assistenza sociale, col desiderio di aiutare senza pretendere nulla in cambio. Mossa dall’altruismo. C’è Dino Impagliazzo, che a 89 anni distribuisce in giro per Roma pasti e beni di prima necessità ai senzatetto, o Angel Micael Vargas Fernandez, che a 20 anni ha salvato un bambino caduto dal balcone. Piccoli gesti, ma che oggi stanno diventando sempre più rari e, paradossalmente, criticati, cosa che non è sfuggita al Presidente Mattarella.

Il discorso di Mattarella
A coronare la cerimonia interviene lo stesso Presidente della Repubblica, che si dimostra preoccupato per la situazione attuale, in cui, non solo in Italia, a dominare è ormai “la spinta egoistica“, ossia “lo star bene da soli“, che quindi si traduce in una indifferenza verso il prossimo e i suoi bisogni, le sue necessità. Specialmente verso coloro che non sono originari del nostro Paese, infatti, è innegabile che ormai la maggior parte della gente preferisca rintanarsi nelle proprie dimore e chiudere gli occhi davanti a una mano che tende e che prega per un po’ di aiuto, di sostegno, magari dopo essere sfuggiti dalla guerra e dalla morte, che forse non hanno risparmiato i loro amici, la loro famiglia. E se oggi l’aiuto viene negato ai profughi, ai bisognosi, chi può sapere se domani non sarà negato anche ai propri compatrioti, ai propri vicini, ai propri amici? Come una droga, l’egoismo può risucchiare in un vortice sempre più potente chi vi cade (o meglio, chi vi vuol cadere), finendo per rinchiudere la vittima nella solitudine più profonda, e una persona sola è una persona debole, destinata a essere lasciata indietro e poi dimenticata. E come ciò avviene nel singolo individuo, neanche uno Stato può essere immune a tale sorte. Ma esiste un rimedio, che è anche cura a questa malattia, che Mattarella ha esplicitamente dichiarato nel suo discorso: la solidarietà. Questa è indicata dal Presidente della Repubblica come “non solo altruismo” ma anche “sentirsi parte di una comunità“. E se per comunità si può inizialmente pensare a un gruppo ristretto di persone, come una comunità familiare, cittadina, o al massimo “italiana”, nonostante questi termini non siano scorretti, sarebbe limitativo pensare che si sia giunti alla massima espansione possibile; neanche la tanto discussa comunità europea è il limite, poiché vi è la comunità umana, a cui si appartiene sin dalla nascita e alla quale non ci si può sottrarre, perché sottrarsi dalla comunità umana vorrebbe dire smettere di definirsi esseri umani, diventare belve.

da un’unica essenza quel giorno creati.
E se uno tra essi a sventura conduca il destino,
per le altre membra non resterà riparo.
A te, che per l’altrui sciagura non provi dolore,
non può esser dato nome di Uomo”.
Versi del poeta islamico medievale Sa’di di Shiraz (Il Roseto), scolpiti anche nel palazzo di vetro dell’ONU
La grande storia della letteratura “per l’altro”
Per dimostrare quanto il recentissimo discorso sia frutto di un pensiero ben radicato nella storia dell’uomo, non solo europeo, basti pensare a diversi autori della letteratura che nel corso dei secoli si sono lanciati in strenue difese del valore dell’altruismo e della solidarietà. L’immagine soprastante mostra le parole di Sa’di di Shiraz, autore islamico vissuto nel XIII secolo, in un posto ritenuto dalla nostra mentalità eurocentrica centro di barbarie e caos indiscriminato, ma che proprio in quei secoli invece, mentre l’Europa era impegnata in guerre fratricide, era diventato uno dei centri culturali più vasti del mondo, sviluppando arti e scienze che proprio da lì poi si sarebbero irradiate nel resto del mondo, aiutandolo nel progresso di civilizzazione. Non sarebbe esagerato affermare che, proprio grazie all’intrusione di uomini islamici nelle varie corti europee, o perlomeno di opere da loro create, i vari Stati poterono sviluppare nuove tecnologie e nuove idee. Senza islamici non avremmo avuto nessun Rinascimento.
Se si preferisce restare in Europa gli esempi abbondano: già dai tempi dell’Antica Roma diversi autori sentivano la necessità di discutere l’argomento, e fra questi il più importante e significativo fu senza dubbio Seneca, che nelle sue “Lettere Morali a Lucilio” non esita a dedicare ampio spazio proprio al tema del rapporto con l’altro, in particolare dei più bisognosi. Nell’epistola XV il grande filosofo afferma che fare del bene verso il prossimo è parte di un processo naturale, per il semplice motivo che “membra sumus corporis magni” (“Siamo membra di un grande corpo”), anticipando di secoli il concetto di comunità umana che oggi è così attuale. Ma Seneca non si ferma a questa prima frase, e poco dopo aggiunge “Societas nostra lapidum fornicationi simillima est, quae, casura nisi in vicem obstarent, hoc ipso sustinetur” (“La società umana è del tutto simile a una volta di pietra, la quale crollerebbe se le singole pietre non si appoggiassero coerentemente l’una all’altra: proprio per questo la volta si sostiene”), indicando come insieme gli uomini siano in grado di costruire e di diventare qualcosa di grande, delle cupole che sfidano il cielo, mentre un singolo uomo che si sottrae a questo dovere, oltre che rischiare di rovinare questo bellissimo sogno, si ritrova solo a essere un solo, inutile mattone, destinato a diventare polvere. La cupola sfida i secoli ed è lodata da tutte le persone che la osservano come miracolo dell’ingegneria e dell’arte, ma mai nessuno ha lodato un mattone.
Un autore meno conosciuto al grande pubblico, ma non per questo meno importante, è l’inglese John Donne, attivo fra il XVI e il XVII secolo, la cui poetica si intreccia, oltre che col periodo storico particolarmente delicato per l’Inghilterra (l’ultima fase dell’epoca elisabettiana e il passaggio dalla dinastia Tudor a quella Stuart), con la sua salute cagionevole che spesse volte lo costringeva a letto, e proprio durante la convalescenza partoriva alcune fra le sue principali opere: fra queste ricordiamo “Devotions Upon Emergent Occasions and Death’s Duel” (“Devozioni per occasioni d’emergenza”), pubblicato nel 1624, in cui l’autore si interroga sulla natura e i motivi della vita e soprattutto della morte. Di queste devozioni la più importante è la XVII, indicata solitamente col titolo di “Nessun uomo è un’isola“, frase che troverà fortuna lungo i secoli grazie ad altri autori come Francis Bacon, Virginia Woolf o Ernest Hemingway, che la useranno come punto di partenza per le loro riflessioni (ed è di recente pubblicazione un libro dello studioso italiano Nuccio Ordine, “Gli uomini non sono isole”, i cui argomenti di discussione e il titolo stesso prendono spunto proprio da questa frase). Il punto di partenza di questa discussione è la campana a morto che l’autore sente suonare varie volte dal proprio letto, e che spesso i suoi amici, preoccupati, pensano sia dedicata a lui, ma a loro lo scrittore risponde che, poiché l’umanità è una sola, la scomparsa di un uomo, chiunque egli sia, indica una modifica irreversibile dell’intera umanità, e anche dei singoli individui che fanno parte di questo unicum. Per spiegare meglio il concetto John Donne si avvale di questa celebre e fortunata metafora geografica: se i vari uomini che compongono l’umanità fossero isole, la loro scomparsa non comporterebbe nessun cambiamento per noi e in noi, ma poiché non siamo isole, quando un uomo muore la sua scomparsa cambia definitivamente il nostro mondo, la nostra psiche, esattamente come causerebbe grandi sconvolgimenti geografici la scomparsa di uno Stato o di una regione dalle cartine geografiche. E’ come se sparisse il Piemonte dall’Italia. L’idea stessa di Italia cambierebbe per sempre. Si potrà inserire qualcosa di nuovo a sua sostituzione, e questo qualcosa potrebbe anche funzionare, ma la nuova Italia sarebbe diversa dalla precedente. Lo stesso vale per gli uomini: quando un uomo muore, chiunque egli sia, essendo l’umanità tutta accomunata, tutta fraterna, tutta un unico, la sua morte diventa anche la morte dell’autore, che non è più lo stesso, ma è una persona nuova, diversa da chi era prima che un pezzo di terra sparisse dalle carte geografiche dell’umanità.

Il valore eterno dell’umanità
Da questo breve e sommario excursus si ricava come tutti gli autori concordino, esponendo le loro teorie con parole diverse, sulla grande questione del rapporto fra uomo e uomo: l’unico modo per poter migliorare il genere umano è aiutarsi non sotto il segno della fratellanza, ma dell’unità, processo attuabile solo dopo aver compreso che mentre i singoli individui sono soggetti alle regole del tempo, il concetto di uomo e la stessa razza umana non lo sono, diventano eterni. Ma questo è vero solo in parte, su un primo livello puramente fisico: se ci si concentra sull’aspetto spirituale e concettuale si può notare come anche un singolo possa ottenere la stessa immortalità, diventare esempio di umanità, dedicandosi alla cura degli altri ogni giorno o con gesti eroici di sacrificio per l’altro. La morte per l’altro rappresenta l’ingresso nel mondo dell’immortalità. Ma è comprensibile che queste parole possano spaventare chi desidera vivere a lungo e senza problemi la loro vita. Ed è qui che intervengono i 32 eroi civici quotidiani, la dimostrazione che, per entrare nel mondo dell’immortalità, non è necessario morire per gli altri, ma basta vivere per gli altri. E la vita è fatta di tanti piccoli gesti. Non costa nulla dedicarne uno a chi è meno fortunato.