Il romanzo distopico di Ray Bradbury (1920-2012) e l’opera illustre del realismo francese rivelano il potere insito nella letteratura, dando prova del valore della cultura nella costruzione dell’individuo.
Fahrenheit 451 (1953), soggetto di adattamenti sul grande e sul piccolo schermo, dal film di Truffaut (1966) alla più recente pellicola televisiva (HBO, 2018), narra una società distopica dominata dall’adorazione dell’oggetto e dall’idolatria tecnologica, in cui uno dei pochi prodotti degni di reale venerazione, viene demonizzato e oltraggiato insieme al suo contenuto, il libro. Montag è un pompiere appicca-fuochi che si dedica al rogo degli esemplari nascosti, gelosamente tenuti segreti dai possessori fuorilegge. Un ben celato regime totalitario teme e occulta il potere latente dei libri ed inibisce ogni forma di dissenso con la repressione di idee discrepanti.
È la stessa idea di potere latente che Gustave Flaubert (1821-1880), esponente di spicco del realismo letterario d’oltralpe, intende infondere nella sua opera più nota, Madame Bovary (1856), in cui la omonima protagonista, insofferente alla monotonia della vita matrimoniale, si rintana nella lettura di romanzi romantici, sfuggendo ad una realtà insoddisfacente e immergendosi in sogni ad occhi aperti. La lettura, il vagheggiamento come forma di svincolo dal reale e un termine, bovarismo (bovarysme in francese), per indicare quel sentimento, quell’atteggiamento psicologico di cui Emma Rouault (questo il nome da nubile della protagonista del romanzo flaubertiano) si fa simbolo, generando un concetto, quasi una corrente di pensiero.
Il rogo dei libri in Fahrenheit 451 esala sapere
Il totalitarismo è un nemico giurato del bovarismo, vero e proprio arcinemico delle eventualità, dei pensieri che divertono (nel significato arcaico del termine) e delle menti che divergono. E così, sotto il regime totalitario di Fahrenheit 451 non è concesso neppure il bovariano desiderio di un mondo differente, perché un innocuo sogno, una fantasticheria romantica è una bomba ad orologeria pronta ad esplodere in minuscoli frammenti di volontà, pronti a pervadere la grigia aria che si tenta di preservare. Ed è per questo che i libri vengono dati alle fiamme, fiamme spietate che non si estinguono se ad estinguersi non è il sapere, se a spegnersi non sono le migliaia di storie, di avventure, di idee, di principi ed ideologie che le pagine dei volumi contengono. Sono fiamme d’ignoranza che inceneriscono, che generano un fumo denso, il fumo di un sapere che si disperde, ormai intangibile, ma che irrita occhi che rimangono appannati e narici che non sentono altri odori. Un fumo nero, d’inchiostro, di parole che si scompongono, che si fanno sillabe, poi lettere, poi particelle, e salgono in alto, in un luogo non più di competenza umana, competenza di cui allora non rimane traccia, incompetenza e, dunque, morte della competizione, della lotta, dell’opposizione.
Emma Bovary non riuscirebbe a sognare in Fahrenheit
È il potere evasivo di cui Madame Bovary si serve a condannare al rogo i libri in Fahrenheit 451. Nessuno può evadere da una prigione che cerca di mascherare le proprie sbarre e di gettare via le chiavi per uscirne, i libri. E così i pensieri si dissolvono, le teorie cadono, la storia può essere riraccontata e la geografia ridisegnata. E ridisegnato può essere, allora, l’uomo-tabula rasa, modificabile senza alcuna resistenza, scarabocchiabile senza parvenza d’arte. Dunque, la cultura non costituisce più un problema, non costruisce più menti critiche, e l’autoplasmazione dell’individuo lascia il posto al plagio delle coscienze. Madame Bovary non è più in grado di sognare, non è nemmeno capace di essere insoddisfatta se non può vedere al di là. E se anche dovesse subentrare la noia, il regime provvederebbe ad indurre il suo personalissimo bovarismo ed Emma Rouault farebbe la fine di Mildred, moglie di Montag. La consorte del protagonista di Fahrenheit è abbindolata, ipnotizzata dal consumismo e dell’appagamento materialista, dagli schermi sempre più invadenti e avvolgenti, in una nociva fuga dalla realtà che è però del tutto inconsapevole, promossa dal regime perché vera e propria prigione digitale, distraente e ammaliante, metodo efficace per la lobotomia delle menti, per una ripetuta e stereotipata risposta alla realtà, per il totale controllo delle masse.
La cultura è la chiave per sfuggire alla prigionia
Nel bovarismo è insito il fallimento, la delusione, il dolore per l’impossibilità di opporsi. Per quanto Emma Bovary cerchi di fuggire dalla monotonia borghese della sua vita con Charles Bovary, non aderente alla grandiosità letteraria e lontana dal romanticismo agognato, nessun tentativo sarà risolutivo e il suo sentimento si tradurrà in un’alternativa e fatale via di fuga, il suicidio. Ma il culto della tecnologia imposto nella società distopica del romanzo di Bradbury sembra quasi essere un bovarismo depurato. È, in Fahrenheit, un bovarismo indotto senza effetti collaterali (senza la tremenda disillusione che porta Madame Bovary al suicidio) a fare di Mildred una sognatrice del tutto diversa, una sognatrice di sogni digitali, spinta ad immergersi nell’altra realtà di una televisione via via più grande, più reale appunto, quasi interattiva, partecipativa, concreta perché più risucchiante nel vortice del non-pensiero. Madame Bovary non potrebbe nemmeno compiere il suicidio in un mondo del genere, perché anche quell’atto estremo avrebbe un sapore stoico, catoniano, perfino quella fine funesta sarebbe affermazione di libertà individuale. Al potere tutto subdolo e violento del regime, che fa dunque della tecnologia imperante concretizzazione di quelle sbarre invisibili, si oppone però Montag, ormai convertitosi, accolto da una comunità clandestina di libri-viventi, di uomini che conservano nella loro memoria il sapere ridotto in cenere. La salvaguardia della cultura, di quell’unica chiave alla prigione totalitarista, diviene ragione di vita di questa comunità di salvatori della conoscenza. E al di là delle fantasie e delle romanticherie di Madame Bovary, l’importanza dei libri si rivela nella sua cifra educativa, nel suo essere custodia identitaria, di una conoscenza che è consapevolezza di essere stati e, dunque, di essere. Più siamo stati, più siamo.