L’Isola dei Famosi e il Filottete di Sofocle: approfondiamo l’isolamento forzato dell’eroe tragico

Trascorrere diversi mesi su un’isola deserta e inospitale, cibarsi di ciò che offre la natura, cacciare, pescare, dormire su giacigli improvvisati e avere grande nostalgia della propria casa, dei parenti, degli amici. Questo è il format del celeberrimo reality “L’Isola dei Famosi” che, inaspettatamente per i contemporanei, ricalca la vicenda dell’eroe greco Filottete.

Sofocle detto “del Laterano” (Flickr)

“L’Isola dei Famosi” è un programma che, a tutti gli effetti, è entrato a far parte dell’orizzonte culturale del nostro paese. Da anni la TV (pubblica e privata) ripropone questo fortunato format che segue la vita di alcuni naufraghi costretti a vivere isolati dal mondo. Lo schema ricorda la vicenda dell’eroe greco Filottete che venne abbandonato dai suoi compagni sull’isola di Lemno. Approfondiamo la condizione tragica dell’eroe tragico.

La tragedia di Sofocle

Il teatro greco antico ha scandagliato in modo straordinario l’animo umano e l’ha rappresentato sulla scena. Il V secolo ateniese è la culla privilegiata dell’esperienza teatrale antica e, senza dubbio, Sofocle è uno dei suoi massimi rappresentanti. Egli, ateniese del demo di Colono, visse nell’arco di tutto il V secolo assistendo alla crescita e alla caduta della polis periclea. Di Sofocle, tragediografo e sacerdote, conosciamo integre solo sette tragedie ma le fonti ci raccontano che ne scrisse oltre centoventi. La tragedia greca era, prima di tutto, un’esperienza politica (aggettivo inteso in senso stretto perché intrinsecamente legata alla polis) a cui tutta la città prendeva parte a teatro. Essa veicolava, attraverso il filtro del mito, concetti e spunti di riflessione per i suoi contemporanei; ancora, i poeti tragici sondavano l’animo umano mettendolo di fronte alle grandi domande della vita. In questo contesto, Sofocle rappresenta per noi moderni uno straordinario interprete della finalità della tragedia antica. Egli seppe portare sulla scena i grandi drammi del suo tempo narrati tramite le vicende del mito: e così oggi leggiamo di personaggi come Edipo, Antigone, Aiace che, posti dinnazi all’ineluttabilità del destino o alla difficoltà interpretativa della volontà divina, non possono altro che struggersi e abbandonarsi ad una sorte meschina ma carica di valenze simboliche. Una delle tragedie sofoclee in cui il protagonista si staglia sulla scena, carico del suo dolore e sofferenza, è il Filottete.

Atene, Teatro di Erode Attico (Flickr)

Filottete: l’eroe abbandonato perché “fastidioso”

Alle Grandi Dionisie del 409 a.C., Sofocle portò sulla scena la tragedia di Filottete. La vicenda si inserisce nel ciclo troiano (l’insieme degli eventi legati alla spedizione achea contro Troia) e ha come protagonista l’eroe Filottete. Egli durante la spedizione verso Troia, a causa di una ferita purulenta e marcescente ad un piede che emana un fetore terribile, viene abbandonato dai suoi compagni sull’isola di Lemno. Qui il protagonista trascorre dieci lunghi anni di segregazione forzata. Nel frattempo l’assedio di Troia prosegue ma gli Achei, nonostante i grandi sforzi militari, non riescono ad espugnare la rocca. Un oracolo rivela che l’esito della guerra sarebbe dipeso dall’arco che Eracle aveva donato a Filottete; udito ciò, l’astuto Odisseo e Neottolemo (figlio di Achille) salpano per Lemno per recuperare l’arma dall’eroe abbandonato dieci anni prima. Nel corso della tragedia Odisseo mette in pratica i suoi sotterfugi per ingannare Filottete. In seguito, Neottolemo, correo dell’inganno, riesce ad ottenere l’arco dallo sventurato eroe ma viene investito dai sensi di colpa per aver circuito un uomo solo, indifeso, ferito e abbandonato dai suoi stessi compagni: dunque gli rivela il vero scopo della missione. Filottete, abbattuto e indignato, decide di non recarsi a Troia e di non consegnare il suo arco. Solo l’intervento finale di Eracle ex machina scioglie la vicenda: il dio promette la guarigione a Filottete e la gloria eterna qualora se partirà per Troia.

La tragedia è imperniata sul personaggio di Filottete. Egli è l’emblema dell’uomo che, inviso alla sua comunità non per una sua colpa, diventa un reietto ed è escluso dalla collettività. L’eroe è privato della gloria del combattimento e della virtù bellica per volere di un dio. Filottete accetta la sua condizione di escluso (a causa della ferita) e, quando viene ingannato da Odisseo e Neottolemo, lascia trasparire in modo straordinario la condizione precaria dell’uomo. Egli, già compromesso nel corpo e abbandonato, per un oscuro disegno divino deve anche subire le angherie dei suoi compagni giunti per ingannarlo.

Le conseguenze dell’isolamento per Filottete

La condizione di isolamento dell’eroe tragico è caratterizzata dalla presenza costante del dolore. Filottete vive in balia di numerose fitte al piede ferito che lo distruggono dal punto di vista fisico e mentale. Egli rappresenta l’uomo menomato che lotta costantemente con la sua malattia in un continuo dissidio interiore: conviene o no continuare a sopportare il dolore?

Nel corso della tragedia l’eroe diverse volte è colto da queste crisi. Ai vv. 742-750 esclama rivolto a Neottolemo:

Sono perduto, figlio mio, e non potrò nascondere il mio male davanti a voi! Ahimè! Mi trafigge, mi trafigge, o me infelice, sventurato! Sono perduto, figlio: mi sento divorare, figlio […]. In nome degli déi, se hai a portata di mano una spada, figlio mio, colpisci all’estremità del piede; recidi al più presto. Non mi risparimare la vita.

Nel dramma ricorre un vero e proprio lessico della sofferenza che, in modo icastico, rappresenta la sofferenza fisica dell’eroe, specchio della sofferenza psicologica che affronta ormai da dieci anni. Filottete, pur essendo un eroe, non incarna appieno le caratteristiche tipiche dell’uomo valoroso antico. Egli si abbandona al dolore, invoca la morte, trascorre un’esistenza infelice e drammatica a causa della divinità e dei suoi compagni: è, in ultima analisi, estremamente umano. Il personaggio che Sofocle porta sulla scena, seppur nell’unicità della sua condizione, rievoca le difficoltà e i dissidi quotidiani che ogni individuo affronta (dolore, tristezza, solitudine, angoscia, rabbia, irrequietezza…).

L’intervento finale di Eracle, pur essendo risolutorio dell’intreccio narrativo, contribuisce a rafforzare l’idea della precarietà umana dinnanzi alla sorte: la vicenda di Filottete è così drammatica e senza prospettive che viene risolta solo da un intervento divino ex machina che, senza spiegazioni, pone fine alla storia. Anche in questo caso l’eroe, fragile e senza strumenti per interpretare la realtà, è succube di un’imperscrutabile volontà divina che prima lo ferisce rendendolo un reietto e poi, dopo anni di indicibili e incomprensibili dolori, lo salva dal suo destino senza fornire motivazioni valide.

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