“L’infinito”: il sonetto di Giacomo Leopardi mai scritto da Lucio Dalla

Gli antichi dicevano che chiunque andasse per mare peccasse di hybris, di tracotanza, per aver cercato di domare una porzione di spazio non a misura d’uomo ma, per loro, di competenza delle divinità. È quindi così che uomini e donne rispondevano alle loro esigenze conoscitive ma, si sa, l’introverso Mare non permette a chiunque di entrare, preferendo alla conoscenza il mistero, alla dominazione il dominio.
Italian singer-songwriter Lucio Dalla performing, Rome 1983 / Il cantante Lucio Dalla in concerto, Roma 1983 – ?? Luciano Viti / LUZ
Attraverso il sonetto di Giacomo Leopardi “L’infinito” ed il brano “Quanto è profondo il mare”, scopriamo perché il mare sia diventato nel tempo sinonimo di ignoto e abbandono.

GIACOMO LEOPARDI

Una biblioteca, la gobba, una degenerante cecità, la “depressione”, sono questi gli elementi che ai più vengono in mente quando si parla di Giacomo Leopardi. In realtà dietro la biblioteca, la gobba e tutto il resto, c’era un Genio che ci ha regalato alcune delle pagine più belle della letteratura italiana e non, riuscendo a proiettarsi in un altrove che sfugge alle leggi della fisica. Questo luogo ha il nome di “Infinito”, l’immagine del quale ci viene restituita attraverso la metafora del naufragio che è però “dolce in questo mare”. Perché non scegliere un’altra suggestione? Se ognuno di noi immagina un naufragio non vede gioia e felicità. Eppure l’uomo chiuso nella sua biblioteca, gobbo e semi cieco ha scelto di descrivere la perdizione di fronte all’infinito proprio con questa immagine, come se non riuscisse a descrivere quel senso di piacevole abbandono in altre parole, lui, che di parole ne conosceva tante. È coì che questa immagine si è cristallizzata nelle comuni coscienze che di fronte al mare, chiudendo gli occhi, ritornano a quell’ “immensità” in cui il pensiero naufraga e la mente naviga a vele spiegate, cercando il vento e chiamando l’orizzonte.

LUCIO DALLA

Bolognese all’anagrafe ma cosmopolita nel cuore, Lucio Dalla è riconosciuto tutt’oggi come uno dei cantautori più importanti della nostra storia recente. Ha fatto ballare i ballerini, fuggire “Anna e Marco”, ha scritto al suo caro amico de “L’anno che verrà”, ha dato voce a “Piazza grande” e ha raccontato magici incontri nella sua tanto amata Bologna che non ha mai mancato di ricambiare l’affetto. Insomma è stato un artista a tutto tondo. Della sua poliedricità Dalla ci dà notizia nel 1977, anno in cui uscì “Come è profondo il mare”, primo album con testi e musiche figlie della mente del cantautore, in cui compare l’omonima traccia che con un testo al limite tra  surrealismo e onirismo ci trasporta in una “sur-realtà”, una terra di mezzo in cui la psiche si perde fino a naufragare. Lo sappiamo però, i testi di Dalla non sono mai quel che sembrano. Il brano è infatti figlio del suo tempo, figlio degli anni di piombo, figlio di un’umanità divisa da qualcuno che “cerca di farci del male, di farci annegare”, figlio del “ricatto”, di “catene” e “bastonate”. Con questo testo al limite dell’ermetismo, Dalla parla del mare come fosse il paradigma delle nostre esistenze, incastrate in una dimensione informe, privata della sua plasticità; parla del mare come elemento di cui tutti siamo figli e a cui tutti dobbiamo tornare; parla del mare come specchio al cospetto del quale tutti siamo invitati a presentarci, osservarci e chiederci “Quanto è profondo il mare”?.

IL NAUFRAGAR M’È DOLCE IN QUESTO MARE

Chi può distinguere il mare da ciò che vi si riflette” si chiedeva Murakami ne “La ragazza dello Sputnik” e noi italiani, questo, lo sappiamo molto bene. Abbiamo costruito la nostra stessa identità cullati dalla dolce nenia del mare nostrum, talmente nostro, da essere riconosciuto come tale in tutto il mondo. Siamo un popolo che al mare deve tutto, siamo i figli prediletti di Poseidone con il quale sentiamo un legame imprescindibile, talmente forte da non essere spezzato nemmeno dalla distanza perché il mare, quando ce lo hai dentro, non lo puoi dimenticare. È forse per questo che abbiamo poesie, canzoni, film e libri ispirati dalla melodia delle onde, nelle quali il singolo è portato a specchiarsi per conoscersi e scoprirsi, come se questa immensa distesa d’acqua fosse la personificazione della propria psiche. È da qui che nascono le parole di Leopardi e Dalla, due voci che per descrivere il proprio riflesso, non hanno trovato nessun’altra immagine se non questa, a testimonianza del fatto che solo questa entità sia in qualche modo in grado di elevarci e restituirci una visione che sfugge all’hic et nunc, disegnata di bianco e di blu. Il Mare però, si sa, non fa sconti a nessuno, nemmeno ai suoi figli prediletti, e quando meno ce lo aspettiamo ci porta via con sé, forse per troppo amore, forse per troppo coraggio, trasformandoci in naufraghi in questa immensità, spogliandoci di tutto e facendoci compiere un salto temporale sino al grembo materno per realizzare l’estrema fusione tra anima ed infinito. Forse è per questo che Leopardi non aveva paura del naufragio, troppo impegnato a contemplare la meraviglia dell’ignoto e il brivido del mistero. Ebbene il mare è tutto questo, è il padre che rimprovera e la madre che accoglie, è la sicurezza della calma e il mistero della tempesta.

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