Il film ‘Nausicaa della Valle del Vento’ di Miyazaki racconta (in ritardo) le cronache del dopobomba su Hiroshima e Nagasaki
1984
Questo è l’anno dei miracoli:
Craxi mangia coi tentacoli,
muore Berlinguer
e Maradona è al Napoli.
Le note sono recenti, i tempi andati. Appena due anni dopo la data che Salmo scelse per venire “al mondo d’estate” e George Orwell per intitolare il suo romanzo più famoso, l’incidente della Centrale Nucleare di Černobyl’ trasformava la vicina cittadina di Pryp”jat’ nel più desolato cimitero radioattivo del pianeta. Altri tre anni, e il Muro di Berlino si sarebbe riempito di crepe. La Guerra Fredda era arrivata alle battute finali, giocando al mondo i suoi ultimi scherzi. E con essa, era arrivato agli sgoccioli anche quel terrore per un eventuale ‘inverno nucleare’ che momenti caldi come la Crisi dei Missili di Cuba del ’62 e i falsi allarmi del NORAD avevano fomentato nel corso dei decenni, influenzando addirittura la cultura di massa di un’intera generazione. Eppure in Giappone, quell’immaginario postnucleare su cui ironizzavano le canzoni statunitensi Anni ’50 di Sheldon Allman – da Crawl Out Through The Fallout a Radioactive Mama – era radicato ormai da decenni nel cuore del Paese, unico al mondo che avesse vissuto sulla propria pelle l’uso di armi atomiche in zone abitate. Lo stesso luogo che avrebbe dato i natali a quell’Hayao Miyazaki che proprio nel 1984 firmò il suo primo lungometraggio di successo, talmente redditizio da permettergli di lì a poco di fondare una casa di produzione tutta propria, lo Studio Ghibli.
Nausicaä della Valle del Vento
Tratto dall’omonimo manga di Miyazaki pubblicato sulla Animage dal 1982, Nausicaä della Valle del Ventosarebbe passato alla Storia come il primo grande lungometraggio del regista giapponese – preceduto solo da Lupin III – Il Castello di Cagliostro del ’79 – inserito retrospettivamente nella collezione di prodotti dello Studio Ghibli, anche se a esso antecedente, proprio perché permise in un certo senso la sua fondazione. Un debutto che già nei suoi sfarzosi titoli di testa incarna premesse da epica impegnata e seria: il mondo postapocalittico in cui vive Nausicaä è stato devastato mille anni prima dai Sette Giorni di Fuoco, una guerra lampo termonucleare combattuta dai Soldati Invincibili, giganteschi automi biologici creati dall’uomo ed equipaggiati con armamenti atomici. Ma se i pochi sopravvissuti hanno imparato ad adattarsi al panorama desertificatoseguito all’apocalisse, una nuova nuova minaccia incombe sugli insediamenti umani: il lento ma inesorabile avanzare di una gigantesca foresta velenosa che si estende a macchia d’olio come un cancro, inghiottendo con le sue spore velenose e i suoi giganteschi insetti tutto ciò che incontra sul suo cammino.
L’ottuso Impero di Tolmechia, superpotenza militarizzata e totalitaria, intende rispondere alla minaccia incombente bruciando la foresta grazie agli armamenti dell’ultimo Soldato Invincibile sopravvissuto alla guerra nucleare e ora in procinto di essere risvegliato. Per opporsi a questo progetto si fa avanti il non più lungimirante Regno di Pejite, nemico giurato dei tolmechiani e ora terrorizzato dall’idea che questi possano usare il Soldato Invincibile non tanto per distruggere la foresta – piano che anzi condividono – ma per imporre il loro controllo sull’intero pianeta. Ma quando la nave tolmechiana che trasporta il Soldato cade nella pacifica Valle del Vento, la sua principessa Nausicaä si trova costretta a convertire gli invasori alle sue teorie sulla selva, convincendoli che non solo la sua distruzione per mezzo del fuoco causerebbe la diffusione delle sue spore e dei suoi insetti infuriati per tutto il pianeta, ma che anzi la foresta non è affatto velenosa di per sé stessa, ma resa tale dal terreno e dalle falde acquifere sottostanti, inquinate dalle scorie nucleari.
Epica nipponica
Il prodotto di Miyazaki ha le tipiche sembianze epiche di un tipico film che però di tipico non ha proprio nulla. Nella pellicola dell’84 convergono ricchezze, e contenutistiche e formali, fra le più disparate. Già solo il tentativo di incasellare il film in un singolo genere cinematografico fallisce miseramente. I combattimenti aerei che coinvolgono le navi tolmechiane non hanno nulla da invidiare alla migliore suspance fantascientifica, ma devono anche molto alla passione di Miyazaki per la Storia dell’Aviazione – già lo Studio Ghibli traeva il suo nome, fra le altre cose, da un modello di aeromobile italiano d’Anni ’30, soggetto poi largamente affrontato nel 1992 con Porco Rosso. Quelli terrestri fra i ribelli della Valle del Vento e l’esercito di corazzati, invece, ricordano tanto le migliori scene di guerra di trincea, ma anticipano anche il più recente Fury (2014) di David Ayer in ritmi e inquadrature. Per non parlare dell’immaginario scenografico e costumistico di Miyazaki, che fra astronavi ipertecnologiche e soldataglie protette da corazze medievali ha tanto il sapore della distopia steampunk.
Dal punto di vista tecnico, la mano ancora pastellata di Miyazaki dona alla Valle del Vento un’aura vintage ma del tutto riuscita. Il regista rifiuta ancora il tratto leggero e ricco di sfumature che l’avrebbe caratterizzato, più avanti, in film come La città incantata (2001) e Il castello errante di Owl (2004), preferendo un tratto più grossolano e una tavolozza meno variegata ma ben più saturata. L’effetto è un collage fumettistico dalle tonalità forti e omogenee, accostate secondo giustapposizioni cromatiche spesso complementari. Le eleganti inquadrature hanno un tale impatto da far quasi dimenticare di trovarsi in presenza di un film d’animazione, che anzi si trasforma nell’espediente per ricorrere a movimenti di macchina – di una cinepresa però inesistente – normalmente impossibili e per risolvere i quali si ricorrerebbe, nel Cinema contemporaneo, a massicce quanto storpianti intrusioni di CGI. Il prodotto d’animazione invece – e Miyazaki lo ricorda con una maestria senza pari a tutti coloro avessero avuto l’istinto di svalutarne la serietà – riesce a destreggiarsi perfettamente fra realismo e finzione, fra inquadratura possibile ed effetto speciale computerizzato, mantenendo una linearità mai spezzata dal salto fra i due livelli. A coronare il tutto, una colonna sonora incalzante e perfettamente azzeccata, le cui melodie ricordano un miscuglio fra manga stagionato e sigla televisiva da blaxploitation alla Isaac Hayes.
Cronache del dopobomba
Perfettamente in linea con le abitudini cinematografiche di Miyazaki, anche Nausicaa assume quella duplice valenza nel veicolare diverse chiavi di lettura alle diverse generazioni che vi si approcceranno. A quelle più giovani, ancora in erba, parrà una favola come molte altre raccontate dallo Studio Ghibli: dolce, fiabesca, eppure a tratti matura e cruda, fonte di non pochi incubi come ne avrebbe causati, più avanti, La città incantata. Ma sotto la superficie, infinite e quanto mai attuali si rivelano le tematiche affiorate dalla selva tossica pensata da Miyazaki. Il rapporto con la natura è senz’altro il tema principale, introducendo un ecologismo anticipatore rispetto alle preoccupazioni che oggi attanagliano il mondo più che mai. Senza dimenticare poi quella passione reiterata e prettamente femminista del regista giapponese di affidare spesso il ruolo di protagonisti a figure femminili forti e decise, il cui carisma – che si ritrovi nell’eroina come anche nell’antagonista, come qui vuole il caso dell’Imperatrice Kushana – fa sfigurare la più accentuata inettitudine maschile. Quello voluto dal demiurgo Miyazaki, fra velleità ecologiche e società matriarcali, è però un mondo in cui un nuovo scenario si impone in modo tanto onnipresente quanto desolante. Il fallout post-nucleare che circonda Nausicaa è certamente originale, non risentendo dei canoni scenografici cui il Cinema di genere ci ha abituato: alla desolazione della wasteland desertificata aggiunge rigogliose e gigantesche foreste, alle specie dalle mutazioni più menomanti sostituisce evolute colonie di insetti. Ma se i più celebri esempi di cinematografia postapocalittica non sembrano toccare Miyazaki, un altro fattore può forse aver giocato un ruolo importante nell’influenzare la scelta tematica del regista. Due date in particolare, più collettive che personali, tanto importanti da aver segnato l’immaginario di un intero popolo, e con esso la fine del più grande conflitto che il mondo abbia mai visto. Il 6 e il 9 Agosto 1945.
Sono le ultime battute della Seconda Guerra Mondiale. Adolf Hitler, sotto terra con il suo entourage già da un pezzo, per una pastiglia di cianuro alla fine sotto terra ci era finito realmente. Con lui, era caduta il 2 Maggio la capitale che gli aveva fatto da ultimo baluardo. E con Berlino, crollava anche quel Terzo Reich che sarebbe dovuto durare mille anni. Ma a Oriente, nella terra del Sol Levante, un nemico incrollabile continuava a frapporre infiniti ostacoli fra gli Alleati e la vittoria sulle potenze dell’Asse. Piuttosto che cedere all’onta della sconfitta, gran parte degli alti ufficiali dell’esercito giapponese, ancora fedeli ai dettami etici del codice samurai, avrebbero scelto – dopo la ratifica della resa incondizionata a bordo della USS Missouri – la via del suicidio per espiare le responsabilità del fallimento, squartandosi il ventre da parte a parte con la pratica del seppuku – nota volgarmente come harakiri. Preso atto che sopravvivere non rientrava fra le opzioni, i piloti dell’aviazione preferivano imbottire i loro Zero di esplosivi per poi lanciarsi in picchiate suicide contro le portaerei statunitensi. Alla conta delle vittime il bilancio, per quanto tragico, andava comunque a favore dei giapponesi: nello scambio di vite e risorse, un attacco kamikaze costava al Giappone un uomo, un aereo e pochi chili di tritolo; agli USA diverse centinaia di uomini più l’incrociatore che li trasportava. Fu così che gli Stati Uniti scelsero di impiegare la loro versione della soluzione finale: un nuovo sterminio di massa reso possibile dalla creazione, da parte di Robert Oppenheimer e del Progetto Manhattan cui faceva capo, della Bomba Atomica.
Su ordine del neoeletto Presidente Harry J. Truman – Franklin Delano Rooslvelt era morto di malattia in Aprile – il primo ordigno, Little Boy, venne sganciato su Hiroshima il 6 Agosto. Il secondo, Fat Man, di diversa fattura, su Nagasaki tre giorni dopo. Al bilancio dei morti, più di 200.000 giapponesi – per lo più civili – rimasero uccisi a causa delle esplosioni, molti dei quali per avvelenamento da radiazioni nei mesi successivi. Il 15 Agosto fu la resa: era la fine della Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, è opinione di molti che i due eventi non siano affatto correlati, e che perciò lo sgancio delle bombe fu solo una prova di forza da parte degli USA, inutile ai fini della resa giapponese. Molti dei protagonisti dei più importanti fronti della guerra – non pacifisti dell’ultima ora né generali di primo pelo, ma ‘guerrafondai’ come Dwight D. Eisenhower e Douglas MacArthur – pur non interpellati, si dissero a posteriori contrari all’utilizzo della bomba. Un indagine condotta successivamente dagli Stati Uniti sull’utilità del bombardamento strategico, intervistando centinaia di militari e civili, concluse “che certamente prima del 31 Dicembre 1945, e con tutta probabilità prima del 1 Novembre 1945, il Giappone si sarebbe arreso anche se le bombe atomiche non fossero state sganciate, anche se la Russia non fosse entrata in guerra e anche se nessuna invasione fosse stata pianificata o contemplata”. Giacché appena un giorno prima dello sgancio della seconda bomba, l’Unione Sovieticarispettò l’accordo intercorso con gli Alleati di aprire un nuovo fronte della guerra entro tre mesi dalla presa della Fortezza Europa, lanciando l’8 Agosto l’offensiva Tempesta d’Agosto. Un piano di invasione della Manciuria che contava un milione e mezzo di uomini e 10.000 mezzi fra divisioni corazzate e aeronautiche dell’Armata Rossa. Secondo fonti del gabinetto di guerra nipponico, furono le schiaccianti vittorie ottenute nel giro di una sola settimana da parte dell’URSS – oltre al suo ritiro come potenza neutrale che potesse fungere da mediatrice nella resa con gli USA – a convincere il Giappone alla resa.
Sull’altro fronte si posero i numerosissimi favorevoli allo sgancio delle bombe, fra cui addirittura dei componenti del gabinetto di guerra e generali d’alto rango dell’esercito giapponese. Koichi Kido, uno dei più stretti consiglieri dell’imperatore Hirohito, dichiarò: “Noi del partito della pace fummo aiutati dalla bomba atomica nel nostro tentativo di porre fine alla guerra”. E Hisatsune Sakomizu, capo segretario di gabinetto nel 1945, definì addirittura i bombardamenti come “un’opportunità d’oro data dal cielo al Giappone per porre fine alla guerra”. La questione si giocava soprattutto sulle stime dei morti che si sarebbero accumulati in ambo i fronti prima della sconfitta del Giappone. Solo due mesi prima, la Battaglia di Okinawa era costata più vite di quante se ne fossero spente allo sgancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki. Nel teatro asiatico i civili morivano a un ritmo di 200 mila al mese, e le stime USA sul costo di morti statunitensi di lì alla fine della guerra si aggiravano fra il mezzo milione e il milione – mentre il totale delle perdite dell’esercito USA raggiunto su tutti i fronti non arrivava a 300 mila caduti. A queste stime andava aggiunto un ordine del Ministero della Guerra del 1 Agosto 1944 che imponeva l’esecuzione di tutti i prigionieri di guerra alleati (100.000) in caso di invasione del Giappone. Oltre alle ingentissime perdite giapponesi che sarebbero seguite all’offensiva sovietica, nonché a quelle fra la popolazione indotte dal blocco totale degli approvvigionamenti, programmato dagli Alleati per mezzo di numerose operazioni. In 10 milioni sarebbero morti per carestia secondo le stime di eminenti storici giapponesi. Infine, in merito alle accuse di crimine di guerra perpetrato dagli USA uccidendo civili innocenti con lo sgancio delle bombe, rispose Padre John A. Siemes – professore di filosofia moderna all’Università Cattolica di Tokyo e testimone dell’attacco atomico su Hiroshima – appellandosi alla richiamo giapponese alla guerra totale che esortava i civili (fra cui donne e bambini) a lavorare nelle fabbriche militari e imbracciare le armi contro eventuali invasori: “Nella guerra totale, come era portata avanti dal Giappone, non c’era differenza tra civili e soldati. […] Mi sembra logico che colui che sostiene la guerra totale in principio non possa lamentarsi della guerra contro i civili”. In generale però, tutti sono concordi nel ritenere lo sgancio delle bombe – avvenuto troppo in concomitanza con l’avvio della Tempesta d’Agosto – come il primo atto della Guerra Fredda. Non solo perché riequilibrò lo strapotere ottenuto dall’URSS con la Presa di Berlino, impedendogli di spezzettare anche l’Asia in più zone d’occupazione, ma soprattutto perché gli USA potessero ostentare di fronte al resto del mondo la potenza distruttiva della loro arma definitiva.