L’era digitale vive le sue piaghe e, tra queste, c’è anche l’hate speech. A fomentare particolarmente l’odio online è stato l’ex presidente Donald Trump, usando il suo account Twitter come una sua agenda personale.
Il linguaggio dell’odio è riuscito a farsi strada anche su internet: postare una foto o condividere un post potrebbe diventare un’occasione per condividere il proprio disprezzo e per trovare consensi attraverso le interazioni. Il rischio è relativo quando a farlo è un normale utente, ma quando a farlo è il Presidente di una delle luoghi più potenti al mondo, allora le cose cambiano.
L’ODIO A COLPI DI TWEET
Nessun presidente ha mai fatto parte dell’era digitale quanto Donald Trump. Il suo amore per i social network iniziò durante la sua corsa alla candidatura per poi, successivamente, continuare anche durante il suo mandato. Complici anche i tempi che cambiano, i profili social di Trump sono stati per anni una sua sorta di agenda personale, dove appuntava qualsiasi sua opinione in politica interna ed estera, su fatti di cronaca che interessavano il suo Paese fino agli ultimi gossip nel mondo dello showbiz. Certo, qualche suo tweet ha rischiato di far scattare più di una guerra, come quando attraverso un tweet scrisse che il leader nordcoreano Kim Jong-Un fosse un “Pazzo a cui non interessa far morire il suo popolo”, ma poche volte abbiamo visto come un social potesse far avvicinare un politico al pubblico. Il suo social preferito è stato sicuramente Twitter, un amore tossico che lo ha portato dapprima alla sospensione di tutti i suoi account social a seguito dell’attacco al Congresso degli Stati Uniti compiuto dai suoi sostenitori e, successivamente, alla riattivazione del suo account Twitter dopo un sondaggio pubblicato da Elon Musk che, da Novembre 2022, ha preso in mano le redini dell’azienda. Ciò nonostante, non sono stati pubblicati nuovi tweet nello stile usuale di Trump spesso aggressivi, sessisti, omofobi, razzisti e provocatori:
“I messicani? Puah! Sono tutti criminali e strupratori”.
Disse nei confronti della popolazione messicana. Talmente burrascoso il rapporto tra i due che Trump avrebbe voluto costruire un muro per dividere l’America dai suoi cattivi vicini. Ma non solo il Messico, poiché i problemi per Trump stavano anche oltreoceano:
“Come fermare ebola? Basta non far entrare gli africani. Curateli laggiù, l’america ha gia troppi problemi”.
E ancora più oltreoceano:
“Cinesi, ascoltatemi (figli di puttana), vi tasseremo del 25%”
Ma i problemi per Trump stanno anche in Patria, con la donna che più gli ha creato scompiglio:
“Francamente, se Hillary Clinton fosse un uomo, penso che non avrebbe nemmeno il 5 dei voti.”
Numerosi sono invece i tweet con cui si riferì ad Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts, con l’appellativo di “Pocahontas Warren”, facendo riferimento alle lontane origini native americane della senatrice. Appellativo che, in questo caso, più che un innocuo tweet, sembrerebbe essere un epiteto denigratorio.
L’EPITETO DENIGRATORIO: LA PEGGIORE DELLE ETICHETTE
Quando vogliamo insultare qualcuno, il nostro disdegno percorre ogni corda vocale in nostro possedimento per poi poter finalmente uscir fuori dalla nostra bocca. Lo scopo? Ferire, esattamente come siamo stati feriti noi. Eppure quando in filosofia del linguaggio parliamo di epiteti denigratori, ovvero quelle espressioni verbali cariche di odio e intrise di svilimento, insultiamo l’intero target a cui la persona soggetto del nostro insulto appartiene. Gli epiteti, ancora più degli insulti, possono etichettare un target e discriminare chi vi appartiene, tenendo l’epiteto un’etichetta difficile da levare. Il peso dell’odio racchiuso in ogni epiteto denigratorio varia in base al tempo, al luogo e ai gruppi, che si suddividono in out-group e in-group: coloro che utilizzano epiteti denigratori nel loro linguaggio quotidiano ma non fanno parte del target discriminato sono appunto gli out-group. Ad esempio, l’utilizzo della N-Word in un contesto di soli bianchi. Infine, abbiamo gli in-group, ovvero coloro che appartengono al target discriminato e utilizzano epiteti denigratori fra di loro. In questo caso, si apre un discorso più ampio, ovvero di come un target discriminato sia riuscito ad appropriarsi di un termine da sempre usato contro di loro. Tornando all’esempio della N-Word, in America come nel resto del mondo è vietato pronunciare la parola per intero, in quanto per secoli è stata utilizzata nei confronti della popolazione nera. Ciò nonostante, la N-Word continua ad essere utilizzata dalla popolazione nera come appellativo fra di loro, trasformando la parola proibita nella loro più grande arma di difesa. L’analisi delle terminologie utilizzate come epiteti le si possono osservare in diverse strategie: la prima, definita come strategia semantica, ci si focalizza sull’aspetto semantico di un termine, ovvero sul suo significato; con strategia pragmatica intendiamo invece come l’utilizzo di una parola possa significato negativo attraverso un atto linguistico di tipo illocutorio e, infine, abbiamo le strategie sociali, ovvero quando il potenziale denigratorio di un epiteto deriva esclusivamente da fattori sociali. Secondo le ultime indagini, sono molti coloro che utilizzano epiteti denigratori nel loro vocabolario senza tuttavia riconoscere il potenziale denigratorio. Tra questi, l’ex presidente Donald Trump non vi rientrerebbe, in quanto ha sempre riconosciuto (a colpi di tweet) il potenziale denigratorio dell’epiteto. Ma cosa succede quando l’epiteto esce da Twitter ed entra in politica?
LA POLITICA DELL’ODIO ATTRAVERSO IL LINGUAGGIO
Fin quando l’epiteto viene utilizzato in piccoli contesti, il margine di danno risulta essere inferiore. Questo viene definito come atto di subordinazione a carattere aggressivo, ovvero epiteti utilizzati in situazioni dove la rabbia, il disprezzo e la superficialità creano odio e costituiscono disprezzo. Vi ricordate di quella volta in cui un clemente e per nulla irritato Beppe Grillo scrisse sul suo account Facebook“Che fareste in auto con Boldrini?”, generando una macchina del fango di commenti sessisti rivolta più alle donne che alla stessa Boldrini?La situazione risulterebbe comunque inferiore nel momento in cui tali epiteti entrassero in campagna elettorale. Questi ultimi, infatti, definiti come atti di subordinazione a carattere propagandistico, hanno da sempre trovato un fidato alleato grazie alla comunicazione politica. Ci vengono qui in aiuto Matteo Salvini e l’attuale Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, una delle coppie più famose dello scenario politico italiano, che fin da quando abbiamo memoria hanno da sempre utilizzato invettive quali “È tutta colpa degli immigrati”. Infine, abbiamo gliAtti di subordinazione a carattere istituzionale ovvero quando tali epiteti possiedono anche un peso istituzionale, poiché asseriti dalla legge. In questo caso ci viene in soccorso la storia, per tutte quelle volte in cui, ad esempio, venne scritto “I neri non possono votare” oppure“L’ingresso è vietato ai cani e agli ebrei”. Le parole possono creare muri ancor prima che tali muri, come quella famosa promessa di Trump, possano essere costruiti.