L’area del sogno: la hot zone del cervello

Il sonno, quell’irresistibile tentazione a cui finiamo inevitabilmente per cedere, in cui ci sembra di essere morti al mondo, ma in realtà non lo siamo. Il cervello dormiente è più attivo che mai: l’EEG (elettroencefalogramma) lo conferma riferendoci i passaggi da onde rapide ad onde sempre più lente.

Ogni 90 minuti circa passiamo attraverso un ciclo di quattro fasi distinte del sonno: tre fasi N-REM (non REM) e una fase REM (rapid eye movement).

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Quando ci addormentiamo passiamo da onde rapidissime (onde beta), tipiche dello stato di veglia vigile, ad onde alfa (relativamente lente), tipiche della veglia rilassata. Addentrandoci nel sonno le onde si fanno via via sempre più ampie e lente durante le 3 fasi N-REM, arrivando al sonno profondo caratterizzato da onde delta. Circa un’ora dopo che ci siamo addormentati accade qualcosa di strano. Anzichè continuare a discendere in un sonno sempre più profondo, cominciamo a risalire dalle profondità, passando di nuovo alla fase N-REM 2 per poi entrare nella più misteriosa delle fasi del sonno: la fase REM, detta anche sonno paradosso.

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In questa strana fase le onde iniziano a diventare rapide (onde beta), l’attività cerebrale è massima, il battito accellera, il respiro diventa più rapido e irregolare, gli occhi si muovono dietro le palpebre chiuse, i genitali si eccitano ( infatti la tipica erezione mattutina negli uomini è proprio dovuta all’ultima fase REM che spesso precede immediatamente il risveglio)!

Ma è vero che sogniamo solo in questa fase del sonno? E soprattutto come è coinvolto il cervello durante il sogno? Quanto tempo effettivo passiamo, a sognare? Perché, al risveglio, gran parte di quel mondo immaginario svanisce? E quanto c’è, di reale, nell’esperienza del sogno?

Una ricerca condotta tra USA, Svizzera e Italia e pubblicata su Nature Neuroscience, fa luce su alcuni dei dilemmi più comuni e finora irrisolti sul riposo notturno.

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I ricercatori hanno individuato le aree coinvolte nel processo del sogno con una precisione tale da riuscire a predire quando i volontari coinvolti negli esperimenti stessero sognando. Ci sono riusciti osservando la distribuzione dei diversi tipi di onde cerebrali generate nelle varie fasi del sonno.

I test hanno coinvolto 46 partecipanti che hanno accettato di indossare un casco per elettroencefalogramma (EEG) mentre dormivano. La tecnica non invasiva che consiste nel posizionare 256 elettrodi sullo scalpo permette di monitorare numero e ampiezza delle onde cerebrali, studiando l’attività elettrica del cervello. Per amor di scienza i volontari si sono prestati a essere svegliati più volte a notte, quando i monitor rivelavano sequenze interessanti, e a raccontare se e cosa stessero sognando in quel momento. Complessivamente, ci sono stati oltre mille risvegli.

L’attività del sogno è risultata coincidere con una riduzione delle onde a bassa frequenza in un’area nel retro del cervello, ribattezzata posterior cortical hot zone (zona calda posteriore corticale).

Risultati immagini per zona calda corticale posteriore

La correlazione tra sogni e abbassamento di queste onde è così forte, che solo osservando i tracciati EEG i ricercatori hanno capito se quella persona stava sognando nel 91% dei casi. Questa sorta di firma ha permesso di capire quanto effettivamente si sogna: dai test su 7 volontari monitorati in 5-10 notti di sonno è emerso che questa attività occupa il 95% di tutta la fase REM e il 71% di quella N-REM.

Quindi assolutamente no, non sogniamo solo durante la fase REM, anche se in questo stadio l’attività onirica è più intensa. Eppure si tratta di due fasi in cui l’attività del cervello è completamente diversa. Come è possibile che il sogno si sviluppi in entrambe?  Il punto è che il meccanismo è indipendente dal sonno Rem o non Rem, proprio perché il sogno ha una sua sorgente autonoma, la hot zone.
Ma perché dimentichiamo i sogni tanto facilmente? «La regione cerebrale che permette di ricordare un sogno è diversa da quella che consente di farlo» spiega Francesca Siclari dell’Università del Wisconsin Madison, prima autrice dello studio. In un test su 10 soggetti si è visto che riuscire a ricordare un sogno era collegato a una maggiore attività nella corteccia prefrontale, associata alla memoria, durante il sonno.

Un altro punto importante della ricerca riguarda il modo in cui il cervello si comporta durante il sogno. Tanto nella fase REM, quanto in quelle N-REM, è stato visto un aumento di onde cerebrali ad alta frequenza nelle aree normalmente attive durante la veglia, come se quella persona stesse davvero vedendo facce, o orientandosi in un labirinto, e non solo sognando di farlo. «La prova – conclude Siclari – che il sogno è, per il cervello, un’esperienza reale e non solo qualcosa che inventiamo al momento del risveglio, come proposto da alcuni ricercatori».

Poi, alla fine, i ricercatori hanno provato a rispondere alla questione più sfuggente di tutte, quella che riguarda la coscienza. La capacità del cervello di avere esperienze infatti resta sempre attiva durante la veglia, ma si dissolve con il sonno. Secondo i ricercatori, il fatto che l’esperienza onirica abbia una base neurologica osservabile rafforza la teoria secondo cui anche i sogni possono essere definiti esperienze in cui la coscienza è attiva. E se l’attività della hot zone è una spia della capacità del cervello di vivere esperienze nonostante sonno e immobilità, lo studio di Nature potrebbe avere anche applicazioni più prettamente mediche. «La nostra ricerca – spiega Siclari – può portare a nuovi marker per valutare lo stato di coscienza nei casi di coma o durante un’anestesia».

 

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